Stili di vita adeguati
per vivere in salute

Un famoso aforisma attribuito ad Arthur Schopenhauer recita che «La salute non è tutto, ma senza salute tutto è niente».

I dati più recenti indicano che il ritmo con cui sta crescendo la durata della vita media in Italia si è ridotto rispetto a qualche decennio fa. In alcuni Paesi del mondo economicamente più avanzati la speranza di vita si è stabilizzata o addirittura inizia ad arretrare. Il fenomeno fa riflettere e molti sono convinti che la vita delle persone non può crescere all’infinito e che occorre, pertanto, puntare più sulla sua qualità che non sull’aumento della sua durata ad ogni costo.

Occorre quindi chiedersi come viviamo: viviamo meglio? Nella vecchiaia che ci attende, riusciremo ad avere una buona qualità di vita? Nel 2015 è stata pubblicata una relazione sulla base dei dati Eurostat che, purtroppo, è tutt’altro che rassicurante. Benché tra il 2005 e il 2013 la vita media in Italia si è allungata (di due anni esatti, da 80,8 a 82,8), non è però aumentata la parte di vita che trascorriamo in buona salute ma quella che trascorriamo con la spiacevole compagnia di una malattia cronica o un certo grado di disabilità.

Inoltre, se prima ci ammalavamo in media a 67 anni, oggi ci ammaliamo ben prima, a 61 anni, in una fase della vita che dovrebbe essere ancora produttiva. In definitiva viviamo di più ma trascorriamo molti più anni da malati, quindi viviamo peggio. Inoltre è bene ricordare che se ci ammaliamo in piena attività lavorativa, questo rappresenta un problema non solo individuale e sociale ma anche un problema di tipo economico per gli Stati e per le imprese, che sono destinate a perdere parte del loro capitale più importante, la capacità di lavoro delle persone, nell’ultima fase della carriera professionale.

Ma perché sta succedendo questo? Il motivo principale è la diffusione sempre maggiore delle malattie cronico-degenerative: malattie cardiovascolari, tumori, malattie neurodegenerative, osteoarticolari, endocrino-metaboliche, polmonari e mentali. Queste, tutte insieme, sono responsabili di circa il 75% del carico di malattia nel nostro Paese e rappresentano più dell’80% delle cause di morte in Italia e in Europa. Sono pertanto il principale problema di salute in tutti i Paesi a reddito elevato.

Per queste patologie non è identificabile una singola causa (come ad esempio è per le malattie determinate da virus), ma si parla di «fattori di rischio», cioè di condizioni che potrebbero favorirne lo sviluppo. Questi possono essere individuali (fumo, alcol, tipo di alimentazione, quantità di attività fisica) e sociali (reddito, istruzione e posizione sociale). La promozione della salute si occupa prevalentemente della prima tipologia di fattori, proponendo pratiche per stili di vita più sana.

Attenzione però: occorre avere ogni cura nell’evitare gli approcci colpevolizzanti nei confronti delle persone portatrici di fattori di rischio comportamentale, nella consapevolezza che spesso le abitudini non sono semplicemente delle libere scelte degli individui, ma sono anche il risultato di importanti influenze sociali. Pensate: si stima che se riuscissimo a eliminare il fumo di tabacco, ad assicurare a tutti un’alimentazione corretta per qualità e quantità e, convincessimo tutti a praticare almeno due ore e mezza di attività fisica moderata alla settimana, riusciremmo a prevenire quasi l’80% delle malattie croniche.

Ma per poter anche solo immaginare di modificare questi fattori non basta l’impegno dei medici e del servizio sanitario, serve che tutti i settori della società si muovano favorendo i comportamenti protettivi: la scuola, le amministrazioni pubbliche, i comuni e gli enti locali, i luoghi di lavoro, le associazioni, la società civile. Solo una totale sinergia può sperare di far raggiungere i traguardi sperati.

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