L’identità delle Regioni
La lezione della storia

Non c’è dubbio che in Lombardia esistano precise identità provinciali, tra cui quella bergamasca è, in modo evidente, una delle meglio definite. In giro per l’Italia è improbabile che un bergamasco si dichiari come lombardo, perché è più difficile stabilire quale sia l’identità «lombarda». Nella Lombardia occidentale esiste l’enorme conurbazione milanese, ben più estesa della «città metropolitana», coincidente con l’ex provincia.

Occupa, oltre a quest’ultima, a nord tutta la provincia di Monza e Brianza, l’area di Busto Arsizio, Saronno, Gallarate, Malpensa nel Varesotto, ampie porzioni del Comasco e del Lecchese, mentre a sud estende i suoi tentacoli fino a Pavia e Cremona: è l’antico territorio del Ducato di Milano. La Valtellina appartenne allo svizzero Cantone dei Grigioni: la Repubblica Cisalpina riuscì a portarla sotto il tricolore, mentre il Ticino, sebbene sia geograficamente e linguisticamente lombardo, rimase di là. Mantova ha un’identità tutta sua, a metà strada tra Lombardia, Emilia e Veneto: del resto fu uno Stato indipendente e sovrano, governato dai Gonzaga.

Bergamo, Brescia e anche Crema (Cremona solo per un breve periodo) furono comprese nella Repubblica di Venezia dal Quattrocento all’arrivo di Napoleone, poi passarono all’Austria, formando il Lombardo-Veneto: un nome quanto mai azzeccato proprio per le province di Bergamo e di Brescia, che combinano queste due identità. Lo storico Giorgio Rumi spiegò che gli Austriaci, dopo l’avventura napoleonica, per impedire nuovi rigurgiti rivoluzionari, vollero costruire una testa di ponte tra il Ticino e Mincio, accorpando i territori che storicamente nessuno, dai tempi di Gian Galeazzo Visconti in poi, era riuscito a unire sotto Milano. Bergamo, Brescia, Crema, Mantova e la Valtellina furono portate nella sfera d’influenza di Milano. Insomma: la Lombardia fu composta dall’Austria. Milano, del resto, ha sempre avuto una vocazione di capitale produttiva ed economica più che politica. Venezia, Torino, Firenze, Roma, Napoli sono le capitali storiche degli Stati italiani pre-unitari. Milano no.

Totalmente diversa la storia del Veneto, dove un’identità «veneta» non solo è incontestabile, ma è forse più forte che in qualsiasi altra regione italiana. Il Veneto è sempre stato, per usare la definizione del geografo francese Maurice Le Lannou, un «uomo-abitante», che fa tutt’uno con il paese che abita, vi è radicato profondamente e ne esprime per intero l’anima. Nel bene e nel male, perché, come ha osservato Guido Piovene, «il sentimento più profondo del veneto è forse l’autocompiacenza».

Il Veneto, geograficamente, ha tutto: montagne bellissime, una pianura fertile, il mare. Escluso quest’ultimo (ci consoliamo con i laghi), molte caratteristiche ambientali e antropologiche delle province di Bergamo e di Brescia sono più affini a quelle del Veneto che a quelle della conurbazione milanese. La forza della nostra cultura, del resto, viene da quei tre secoli e mezzo, tra Quattrocento e fine Settecento, trascorsi con la Serenissima: fino a Napoleone, e poi agli Austriaci, non abbiamo conosciuto domini stranieri. I capolavori di Lotto, Palma il Vecchio, Moroni, Baschenis, Fra’ Galgario sono tra i frutti preziosi della piena appartenenza a quel mondo veneto. Così come, a Brescia, Moretto, Savoldo, Romanino, Ceruti. Tutti, del resto, ricordiamo la celeberrima pagina manzoniana sulla fuga di Renzo, dalle angherie della Milano spagnola, verso Bergamo: «Terra di San Marco Terra di libertà». Questa è la storia.

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