Antiche miniere del Monte Misma
Le pietre che affilavano spade e falci

L’evoluzione tecnologica continua ha modificato radicalmente atteggiamenti e modalità di lavoro anche nel mondo rurale, ma non è raro vedere ancor oggi, nelle nostre valli, contadini intenti all’affilatura delle lame dei vari attrezzi nel modo tradizionale, ossia con la pietra coti.

L’evoluzione tecnologica continua ha modificato radicalmente atteggiamenti e modalità di lavoro anche nel mondo rurale, ma non è raro vedere ancor oggi, nelle nostre valli, contadini intenti all’affilatura delle lame dei vari attrezzi nel modo tradizionale, ossia con la pietra coti.

Tali pietre, «cùt» in dialetto bergamasco, derivano da rocce sedimentarie che contengono silice. Sono particolarmente diffuse nella zona del Monte Misma, che abbraccia i comuni di Albino e Pradalunga, ma anche nei vicini Nembro e Cenate Sopra.

Per secoli hanno costituito un’attività primaria della zona, tanto importante che ha suscitato in tempi recenti un nuovo interesse da parte di ricercatori e documentaristi. Tra questi Flaviana Cugini, che ha scritto il libro «Le cave dell’Abbazia», edito con il contributo della Città di Albino. Le prime estrazioni, a cielo aperto in quanto affioramenti superficiali sulle sommità, risalgono all’epoca romana, addirittura a prima della fondazione di Roma, come testimonia anche Plinio il Vecchio. Successivamente si è reso necessario un lavoro di scavo per raggiungere la «éna» (vena), cioè il filone vero e proprio di pietre coti. Essendo la vena molto sottile e il terreno instabile e umido, l’estrazione era molto difficile e pericolosa; se ne doveva scavare una ingente quantità per ricavare un numero modesto di pietre. Venivano usati esplosivi tant’è che numerosi sono gli incidenti negli anni, anche mortali.

Questa attività conobbe un notevole sviluppo soprattutto fra i due conflitti mondiali. Durante la seconda guerra mondiale, ingenti erano anche le commesse da parte dei tedeschi. I primi sintomi di crisi arrivarono alla fine degli anni Cinquanta, con notevole inasprimento negli anni Settanta, periodo nel quale si registra un declino dell’utilizzo delle pietre dovuto soprattutto a fattori commerciali e concorrenziali. Nel tempo anche le esportazioni vengono meno e questo contribuisce alla cessazione dell’attività.

La particolarità di questa pietra è l’alta percentuale di silice contenuta, che la rende particolarmente efficace nella molatura degli utensili; inoltre è molto consistente e preferita rispetto alle pietre artificiali oggi in uso per l’affilatura. Per questa sua caratteristica era richiesta soprattutto dalle genti locali che erano impiegate nella lavorazione di terreni e boschi. In dimensioni ridotte, circa sedici centimetri, era usata anche dalle mondine, che la tenevano nelle tasche del grembiule per usi diversi.

Ad un certo punto la pietra diventa talmente popolare e l’attività assai prospera che viene addirittura esportata oltre oceano. Il lavoro d’estrazione era duro e malsano, ma riscuoteva consensi, perché ben retribuito; una valida alternativa all’obbligo di emigrazione nei Paesi confinanti. Il salario era quindicinale e diverso a secondo della mansione svolta, dal ruolo di capo cava a quello di semplice trasportatore. Il turno di lavoro era di sei-sette ore, e veniva svolto di mattina; era una sorta di «part-time» che consentiva di gestire anche le attività familiari, principalmente agricole. Era manovalanza soprattutto maschile, nella fase di escavazione e trasporto, ma principalmente femminile in quella di sagomatura e levigatura dei «ciàp», la parte utilizzabile delle pietre coti.

Questa mansione veniva svolta nel laboratorio dislocato nella vicina Pradalunga ma anche a domicilio; nel 1942 erano ancora impiegate circa settanta donne. Anche i bambini avevano una mansione: prestavano la loro opera inizialmente all’interno delle miniere, più abili grazie alla piccola conformazione fisica, per il trasporto dalla vena all’esterno, trascinando grosse casse di legno definite «argàla», ricolme di pietre. Mentre il trasporto dalle miniere al laboratorio veniva effettuato con gerle portate a spalle e successivamente caricate sul dorso dei muli. Il materiale di scarto veniva invece scaricato nella «Roéra», in alcune zone ancora parzialmente visibile.

Ogni miniera era attrezzata all’ingresso con un semplice vano adibito a deposito dei frugali pasti che venivano successivamente consumati, e a deposito degli abiti. Non mancavano all’interno di questi semplici luoghi numerose immagini sacre, scelte a protezione della incolumità di chi lavorava. La più popolare era quella di Santa Barbara, protettrice di artificieri e minatori. Tutti erano fortemente devoti e la festeggiavano il 5 agosto in gran solennità, mentre la ricorrenza del 4 dicembre era giornata festiva pagata. La statua era portata a spalle dai minatori, dopo un sempre animato e prosperoso incanto. Ad Abbazia di Albino c’è ancora una santella dedicata a santa Barbara, nella quale sono state raccolte le fotografie dei minatori deceduti.

Oggi le miniere sono impraticabili e tutto quel fermento è cessato. Stessa sorte hanno subito le cave di marmo e altri materiali della Vallotella che, insieme, hanno rappresentato una risorsa importante. Rimangono però tangibili testimonianze di tutto ciò, nella memoria delle genti locali ma anche nelle miniere, che potrebbero essere risanate parzialmente, almeno per un uso didattico e turistico. n

Gian Luigi Bresciani e Flaviana Cugini

Fine - Ultima puntata (ma «Le Storie dimenticate» riprenderanno presto)

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