Da Caravaggio negli Usa
per fare la ricercatrice

Arriva da oltreoceano un’importante scoperta anatomica: le meningi del cervello sarebbero dotate di vasi linfatici, una sorta di rete fognaria capace di eliminare i prodotti di scarto delle cellule cerebrali e di trasportare le cellule del sistema immunologico.

Arriva da oltreoceano un’importante scoperta anatomica: le meningi del cervello sarebbero dotate di vasi linfatici, una sorta di rete fognaria capace di eliminare i prodotti di scarto delle cellule cerebrali e di trasportare le cellule del sistema immunologico. A rilevarne l’esistenza che va a ridisegnare l’interazione tra il nostro cervello e il sistema immunitario, è stato un gruppo di ricerca dei National Institutes of Health (Nih) con sede a Bethesda (a nord di Washington) negli Stati Uniti, in cui lavora dal 2012 la neurologa Martina Absinta, originaria della frazione caravaggina di Vidalengo.

Che cosa implica questa scoperta anatomica?

«Può aprire nuove strade di ricerca per comprendere meglio e contrastare malattie neuroinfiammatorie e neurodegenerative, ma su questo aspetto c’è ancora da lavorare. Il nostro è stato un progetto puramente anatomico: con la riscoperta dei vasi linfatici nelle meningi dell’encefalo, ora si potrà capire meglio come il nostro organo, sede di mente e psiche, si auto-regola, attiva risposte immunitarie contro i patogeni ed elimina le sostanze di scarto».

Perché ha usato il termine «riscoperta»?

«Perché nell’800 l’anatomista italiano Paolo Mascagni li aveva già descritti e localizzati nella dura madre delle meningi, eppure questa nozione è stata confutata per circa 200 anni dall’intera comunità scientifica: per qualsiasi libro di medicina il cervello è l’unico organo del nostro corpo privo di vasi linfatici. Poi nel 2015 due ricerche indipendenti - una dell’Università della Virginia, l’altra dell’Università di Helsinki - hanno dimostrato l’esistenza di un sistema linfatico nelle meningi dei topi. Da questo spunto è nata la collaborazione con i ricercatori dell’Università della Virginia (Antoine Louveau e Jonathan Kipnis) mossa dall’assunto: “Se esistono nel cervello dei topi potrebbero anche esistere in quello umano”».

Come avete sviluppato il vostro lavoro di ricerca?

«Attraverso due filoni principali. Abbiamo cercato di visualizzare la rete di vasi linfatici con la risonanza magnetica ad alta risoluzione in vivo e attraverso l’analisi istologica di tessuti cerebrali autoptici. Nel primo caso abbiamo iniettato a cinque soggetti sani specifiche sostanze o mezzi di contrasto: la risonanza magnetica ci ha permesso di visualizzare il mezzo di contrasto uscire dai vasi sanguigni delle meningi e confluire in quelli linfatici. A questa procedura in vivo si è aggiunta in parallelo l’analisi effettuata su campioni di tessuto cerebrale autoptico. È stato un lavoro importante anche a livello di localizzazione: i vasi linfatici sono infatti presenti solo nella parte più esterna e spessa delle meningi, la così detta “dura madre”».

Qual è stata la chiave per ottenere questi risultati?

«Lavoro di squadra, grossi finanziamenti federali e la possibilità di confrontarsi con alcuni dei più grandi esperti mondiali in varie branche della medicina. Nel nostro gruppo formato da una dozzina di persone e coordinato dal radiologo e neurologo Prof. Daniel S. Reich, lavorano costantemente al mio fianco un patologo animale (Seung-Kwon Ha, co-autore del lavoro scientifico pubblicato) e due fisici di risonanza magnetica. I National Institutes of Health (Nih) sono davvero speciali: sia a livello di organizzazione che di tecnologia è difficile fare parallelismi con l’Italia, Paese che mi ha dato un’ottima formazione medica e scientifica».

Ci racconta il passaggio dal Bel Paese all’America?

«Non sono emigrata strettamente per necessità, ma per curiosità scientifica personale: l’ho vista come un’occasione di scambio culturale e di conoscenze professionali. Tutto è partito studiando Medicina e Chirurgia all’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano, realtà dinamica con un’ottica internazionale dove ho avuto la fortuna di collaborare con figure scientifiche importantissime nel mondo della ricerca sulla Sclerosi multipla (Prof. Massimo Filippi e Prof. Giancarlo Comi). Durante l’ultimo anno di specialità in Neurologia ho preso al volo l’opportunità di fare un periodo qui a nord di Washington DC, che è proseguito con un dottorato di ricerca; ho poi vinto un finanziamento e ora sono ricercatrice».

Oltre alla scoperta sui vasi linfatici, su cosa si focalizza il suo lavoro?

«Lavorare qui ha significato usare la mia quasi decennale competenza in tecniche di diagnostica per immagini (neuroimaging) e coniugarla con nuove competenze come lo studio patologico dei tessuti cerebrali. Il neuroimaging è un filone della neurologia “moderno”, che usa tecnologie avanzate per capire qualcosa in più delle malattie neurologiche. Così, oltre ai linfatici, studio come l’infiammazione cronica a livello delle placche di Sclerosi multipla impedisce al cervello di ripararsi in maniera appropriata».

Passando alla sfera quotidiana, come si trova a Washington?

«Sono qui ormai da qualche anno e la vita sembra simile a quella italiana, non percepisco più alcuno shock culturale. Certo, questa zona è un’area felice e stimolante dal punto di vista intellettuale e culturale, l’ambiente è vivace e c’è molta integrazione. L’ “altra” America colma di fratture sociali esiste eccome, ma non l’ho mai vissuta direttamente. Credo che per vivere in maniera equilibrata all’estero sia importante crearsi una buona rete sociale, per questo mi piace incontrare spesso amici provenienti da tutto il mondo così da vivere appieno questa esperienza americana: qui ci sono numerose aree verdi e si fanno molte attività all’aria aperta; a mezz’ora da Washington, si è circondati da colline e cascinali che ricordano la Toscana, mentre se si ha a disposizione un fine settimana le distanze per visitare Philadelphia o New York sono ragionevoli».

Dove si vede in futuro?

«Spero di poter continuare a far ricerca. I miei programmi sono di restare ancora un pochino negli Stati Uniti e magari poi tornare in Italia o almeno in Europa con un ricco bagaglio di ricerca ed esperienze internazionali da poter condividere».

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