In Mali aiuta i bimbi denutriti
Miriam è l’unica europea a Ségou

«Se hai fame, canta. Se hai male, ridi» recita un antico proverbio Yiddish. Quando ti imbatti in Miriam Cividini - cooperante originaria di Lallio - non riesci a fare a meno di cucirle addosso una terza variante: «Se hai fame, ridi». Perché lei - unica occidentale di stanza a Ségou, in Mali, a tre ore e mezza dalla Capitale, Bamako («E tra le poche a vivere in una casa fatta di mattoni, anziché in fango e argilla», specifica) - combatte la malnutrizione acuta e severa nei bambini dai sei mesi ai cinque anni, armata di un sorriso capace di illuminare tutta la regione del Saehl dove, del resto, deve perennemente fare i conti con l’assenza di elettricità e di acqua.

Come ogni stoica eroina, anche Miriam vanta un fido destriero al suo fianco: una scalcinata bicicletta dall’aspetto vissuto o, come preferisce definirla lei, «essenziale». «Due ruote, una telaio e una catena. Nessun cambio o accessorio, pedali senza catarifrangenti, neppure il cavalletto. E pensare che l’ho pagata l’equivalente di 65 euro! Monto sul sellino nelle ore diurne, per avventurarmi tra le poche strade sicure in cui posso recarmi da sola. La zona a nord del Mali è in guerra dal 2012, sebbene a livello formale sia stato firmato un accordo di pace nel 2015. Ma la «guerrilla» imperversa ancora: meno quella tuareg, più quella di matrice islamica. Non essendoci altri europei nei paraggi, devo attenermi a una serie di regole di sicurezza per non dare troppo nell’occhio».

La bergamasca abita lì da dicembre, per coordinare tutti i progetti che la Ong milanese Coopi porta avanti nel Paese. Interventi riguardanti soprattutto emergenze in ambito di malnutrizione infantile: una piaga che in Mali, così come nei vicini Ciad, Niger, Nigeria e Camerun miete ancora centinaia di vittime. Grazie al «metodo mille giorni» - che nell’ultimo triennio ha permesso di salvare 18mila piccole vite - il 90% dei bambini sotto i 5 anni e delle donne incinte e allattanti del distretto sanitario ricevono cure mediche, alimenti e corsi di educazione alimentare.

Spesso non è la mancanza di cibo a causare la malnutrizione, bensì una serie di lacune o credenze culturali che portano, ad esempio, a dare ai piccini solo riso bianco. Insegniamo alle madri a preparare delle pappette più nutrienti. Non è facile vincere la reticenza nei confronti delle idee occidentali: per loro sono una “toubabou”, ovvero “persona bianca” in bambara, la lingua ufficiosa. Quella ufficiale è il francese, che io conosco poco e qui parlano in maniera decisamente creativa. L’assenza di una reale interazione verbale è però sopperita dai sorrisi e dagli sguardi che mi riservano: i maliani sono un popolo ospitale, generoso, pacifico e disponibile. La loro gioia di vivere si manifesta persino nei vestiti che amano indossare: un arcobaleno di colori vivaci. Nonostante l’indigenza, danno molta importanza all’abbigliamento: del resto vantano una grande tradizione tessile. I più abbienti comprano il “bazan” - stoffa pregiata composta da cotone e seta - mentre gli altri si accontentano del “pagne”».

Tutto un altro mondo rispetto all’Uganda: uno dei tanti luoghi in cui la 32enne ha vissuto nell’ultima decade. «Ero stagista all’Ambasciata italiana di Kampala, la capitale: a differenza di quanto si possa pensare, la gente era piuttosto chiusa. Non scorderò mai, però, l’impatto visivo che ebbi, appena atterrata: ero totalmente abbagliata da quel tripudio di colori intensi, dal rosso della terra all’azzurro del cielo, fino al verde rigoglioso della vegetazione».

Qualche anno prima si era stabilita per undici mesi nella periferia di Chicago, a Melrose Parc, a seguito di un progetto missionario degli Scalabriniani. «L’instancabile dedizione con cui padre Mauro, padre Claudio e padre Leandro assistevano immigrati e indigenti “latinos” è stata rivelatrice per me: è merito loro se ho imparato che è vietato arrendersi, perché nessun problema è realmente insormontabile. A tutto esiste una soluzione: tocca soltanto rimboccarsi le maniche. Ho lavorato come factotum: servizi di segreteria, organizzazione di eventi, cucina, pulizie, distribuzione di cibo ai poveri. Ho osservato da vicino la migrazione messicana: un popolo gioioso e con un grande cuore, ma con zone d’ombra generate dal duro impatto con il sogno americano; padri di famiglia che affogavano la frustrazione nell’alcol e finivano col picchiare moglie e figli, o che non mangiavano pur di acquistare un macchinone. La cosa buffa è che ero partita per migliorare il mio inglese, ma sono tornata parlando spagnolo».

Era stato proprio l’incontro con la congregazione fondata dal beato Giovanni Battista Scalabrini – conosciuta grazie a un suo membro di spicco, padre Sisto Caccia, originario di Lallio – a permettere a Miriam, a cavallo tra il quarto e il quinto anno del Secco Suardo, di fare la prima esperienza nell’ambito del volontariato. «Trascorsi l’estate a Shenley, a un’ora di treno dal centro di Londra. Ero “care assistant” in una casa di riposo che ospitava prevalentemente anziani italiani emigrati. Fu proprio in quel momento che scoprii la vocazione per il sociale e per la multiculturalità: così decisi che mi sarei iscritta a Mediazione linguistica all’Università di Milano».

Se è vero che la mela non cade mai troppo lontano dall’albero, la «chiamata» di Miriam non colse troppo di sorpresa i suoi genitori, Stefana e Maurizio (ex sindaco di Lallio), da sempre in prima linea nelle file del Celim Bergamo. «Appena sposati hanno vissuto due anni a Cochabamba, per seguire alcuni progetti della onlus in Bolivia: è lì che è nata mia sorella ed è stato concepito mio fratello. Chissà, forse è per questo che, pur non essendoci mai stata , il mio sogno nel cassetto è lavorare prima o poi come cooperante in America Latina. Soprattutto in Cile: complici i romanzi di Isabel Allende, Marcela Serrano e Luis Sepulveda. E poi, certo: vorrei finalmente visitare la Bolivia». E, come da tradizione, l’unica a non fare i salti di gioia sarà la nonna. «Ogni volta che devo ripartire, attacca con la stessa frase: “dondèt à mo’, sta chè. L’è periculus là, sta chè!”».

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