Matteo, ricercatore a Londra nella City
Studia gli effetti dei cibi sulla nostra salute

È stata una scelta naturale per il ricercatore Matteo Crotta, classe 1985, intraprendere la via della scienza: lo ha capito sin da piccolo, quando nella sua casa di Borgo Palazzo giocava assiduamente con microscopio e provette. Crescendo, non sono mancati momenti di oscillazione necessari per trovare la via maestra: «All’ istituto Natta ho dovuto ripetere un anno: sentivo un grande interesse per la chimica, ma avevo scelto l’ indirizzo sbagliato - racconta Matteo -. I prof dell’ epoca mi hanno trasmesso la voglia di capire come si sposano e reagiscono gli elementi: ho optato per il campo della chimica e microbiologia degli alimenti, ed è andata benissimo».

Dopo le superiori, sono infatti seguiti cinque appassionanti anni di università a Milano in Scienze e tecnologie delle produzioni animali con relativo dottorato, e da un anno e mezzo Matteo è ricercatore a Londra per il Royal Veterinary College, dove si occupa principalmente di sicurezza alimentare e analisi del rischio utilizzando modelli matematici di simulazione.

Quali sono le tappe fondamentali del tuo percorso?
La triennale all’ Università Statale di Milano mi ha permesso di integrare gli aspetti della chimica e microbiologia degli alimenti con la corretta gestione degli allevamenti, la trasformazione dei prodotti di origine animale e la loro qualità organolettica e igienico-sanitaria; insomma, una visione integrata a 360° della filiera alimentare. Durante la laurea specialistica ho poi scoperto la potenza dell’ analisi statistica dei dati attraverso software specifici di calcolo che ho imparato a programmare».

Come è avvenuto il collegamento Milano-Londra?
Al termine degli studi, ho vinto una borsa di studio per il dottorato di ricerca in Produzioni animali a Milano. Il mio supervisor mi propose di partecipare al progetto “Biosafe” della Fondazione Cariplo; serviva capire come impostare un’ accurata analisi del rischio sulle produzioni animali, ma sembrava un’ impresa titanica. Così ho frequentato un corso di sei mesi molto tecnico e basato sulla matematica al Royal Veterenary College di Londra. Grazie a questa formazione sono riuscito a sviluppare il mio lavoro di dottorato, sono stato contattato per una posizione di consulente per l’ istituto inglese e da settembre sto svolgendo il post dottorato».

Quali sono stati i criteri nel tuo processo di selezione?
In questo istituto quando c’ è una posizione aperta la notizia viene diffusa a livello internazionale; poi, la valutazione è solo focalizzata sul profilo ricercato, non importa chi sei e da dove vieni. Uno dei punti di forza di questa università - la terza al mondo nelle scienze veterinarie - è la trasparenza con la quale seleziona le persone. Il suo atteggiamento vincente è avere strumenti all’ avanguardia e persone preparatissime. Questo sistema meritocratico mi rende fiducioso e continua a darmi una grandissima forza».

Come sono le tue giornate di lavoro?
La domanda tipo alla quale si cerca una soluzione è: qual è la probabilità di ammalarsi di una certa cosa, mangiando un certo prodotto? E cosa si può fare per abbassare questo rischio? Per rispondere, studio e strutturo la filiera alimentare e cerco di descrivere cosa accade all’ agente biologico pericoloso per l’ uomo (microorganismi o virus) in ogni step del processo, traducendo quello che accade in termini matematici e probabilistici. Lavoro al computer: mi piace pensare di essere un po’ il direttore d’ orchestra, visto che metto a punto il mio modello interagendo con i dati e le informazioni fornite dai professionisti e ricercatori di altri settori, dalla genetica alla microbiologia fino alle scienze sociali».

In che modo i tuoi calcoli cercano di aiutare la futura ricerca?

«Il risultato più immediato è la quantificazione del rischio per la salute pubblica, ma la traduzione di ciò che avviene lungo la filiera alimentare in termini matematici permette lo sviluppo di altri due aspetti che considero il valore più profondo del mio lavoro. Il primo è la simulazione di scenari alternativi volti a capire “cosa accadrebbe se...”. Ad esempio, come cambia il rischio per il consumatore variando alcuni parametri chiave del modello? Ciò consente di dispensare direttive o linee guida, ad esempio sulla temperatura di conservazione più corretta di un prodotto. Il secondo aspetto è invece rendere evidenti le attuali lacune che non permettono una stima accurata del rischio o gli aspetti che meritano ulteriori approfondimenti; in altre parole, si individuano le priorità per la ricerca corrente, capendo dove e come è meglio investire fondi nell’immediato futuro. Ciò è importante soprattutto per i patogeni “emergenti”, ovvero agenti biologici che per un motivo o per l’altro stanno diventando un problema».

Come funziona il tuo gruppo di ricerca?

«Analizzando dati e sviluppando modelli per diversi soggetti del campo alimentare e sanitario: privati, associazioni di allevatori, enti sanitari nazionali in Europa e nel mondo. Attualmente siamo impegnati in oltre 70 progetti che comprendono ad esempio la resistenza agli antibiotici, le malattie emergenti, la salute e il benessere animale, lo studio e il controllo dei piani di monitoraggio sanitario. Un mio grande contributo è stato esportare la “pausa caffè” a metà mattina: la regola è “per 10 minuti ci si rilassa, si parla di tutto, ma non di lavoro”. A parte gli scherzi: siamo un gruppo internazionale di alto profilo (meno della metà è di origine inglese), che lavora assiduamente e porta a casa risultati importanti».

Ci potrebbe però essere un grosso ostacolo al processo di internazionalizzazione…

«Il risultato del referendum sulla Brexit ha lasciato scontenti tutti a livello universitario, di ricerca e nel campo dei professionisti. Buona parte dei dipendenti è straniera: il rettore, consapevole di come il carattere internazionale dell’istituto sia uno dei grandi punti di forza, ha istituito incontri di aggiornamento e l’ufficio personale è sempre disponibile per un supporto in tema di residenza e cittadinanza. Stiamo a vedere».

Come ti trovi a lavorare nella «City»?

«Bene. Vivo con una famiglia inglese in un quartiere strategico per raggiungere agevolmente sia la sede del Campus a Camden Town, sia quella in campagna, dove abbiamo fattorie didattiche e il Queen Mother Hospital, una delle cliniche veterinarie più avanzate al mondo. Sono in ufficio dalle 8,30 alle 19. Appena torno a casa, mi collego in Skype con mia moglie che torno a trovare ogni weekend».

Uno scienziato-scrittore americano disse che «Casa è quel luogo che i nostri piedi possono lasciare, ma non i nostri cuori».

«Infatti la parola “casa” la collego subito a mia moglie, al nostro cagnolone e alla mia amatissima città che è Bergamo, oltre ovviamente alla famiglia. In questo momento Londra mi sta dando opportunità e soddisfazioni professionali che non posso non accogliere; in futuro vedremo, è difficile fare previsioni a lungo termine, ma mi sento troppo legato a Bergamo per immaginare la mia vita altrove. La speranza è fare il lavoro che amo nel mio Paese».

Essere più vicini ai bergamaschi che vivono all’estero e raccogliere le loro esperienze in giro per il mondo: è per questo che è nato il progetto «Bergamo senza confini» promosso da «L’Eco di Bergamo» in collaborazione con la Fondazione della comunità bergamasca onlus. Per chi lo desidera è possibile ricevere gratuitamente per sei mesi l’edizione digitale del giornale e raccontare la propria storia. Per aderire scrivete a: [email protected].

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