Diga del Geno: un processo durato 4 anni

In un primo tempo si cercò di nascondere le vere cause della catastrofe, avanzando l’ipotesi di un attentato anarchico. Si legge in una cronaca dell’epoca: «Si sarebbe voluto far credere che uno o più individui, carichi di almeno 75 chilogrammi di alto esplosivo, recatisi sul Gleno, avessero preparato e fatto esplodere una formidabile mina provocando il crollo della diga. Tutto ciò sotto gli occhi del guardiano e senza che i numerosi operai, quella mattina al lavoro, se ne avvedessero. Semplicemente fantastico».

L’ipotesi tuttavia non stava in piedi, proprio come la diga, e la realtà venne a galla in tutta la sua crudezza quattro anni dopo durante il dibattimento processuale, contrassegnato da feroci polemiche.

Fu travolto perfino un ministro, Carnazza, reo di aver permesso al titolare dell’impresa di costruzioni, Virgilio Viganò, un ex filandiere, di continuare la realizzazione dell’opera anche dopo una lunga serie di denunce verbali.

Al processo emerse, tra l’altro, che la diga era stata ultimata senza progetto e senza collaudo dei lavori. Sconcertanti le ammissioni rese dallo stesso ministro in Senato: rispondendo il 6 dicembre 1923 ad alcune interrogazioni, aveva rivelato che il Viganò era convinto che «della scienza si potesse fare a meno, per cui si era lasciato guidare dal semplice buonsenso».

Ancora più sconcertante l’atteggiamento dell’impresario Vigano: si vantava di essere riuscito a costruire la diga «con soli cinque milioni, mentre gli ingegneri ne avrebbero spesi non meno di dieci».

Voleva passare per benefattore, in realtà affiorò la sua indole di aguzzino.

Al processo, infatti, si apprese che più volte, nel corso dei lavori, gli operai si erano lamentati pubblicamente, rivolgendosi al Fascio di Vilminore, «per essere trattati come bestie, ingiuriati e spinti a lavorare con bestemmie, fatti segno ad ogni angheria».

I dirigenti fascisti, informati pure che l’impresa stava costruendo la diga «non a regola d’arte», la diffidarono, ma senza risultato.

Il direttore dei lavori, ingegner Gino Consigli, si dimise non condividendo la «filosofia» dell’impresa Viganò («a volte ci ho rimesso di tasca mia per compensare quei poveri disgraziati degli operai»).

Secondo contratto, la paga sarebbe dovuta essere di quattro lire l’ora; in realtà gli operai ricevevano molto meno; avrebbero inoltre dovuto lavorare non più di nove ore giornaliere, ma erano impiegati molto più a lungo.

Emerse ancora, al processo, che «l’appaltatore si era impegnato a licenziare soltanto chi si fosse reso colpevole di insubordinamento e avesse dato prova di incapacità, malafede e negligenza; però chi aveva mosso lagnanze sui materiali scadenti usati, e sulla successiva fretta del lavoro, era stato licenziato in tronco».

© RIPRODUZIONE RISERVATA