La triste storia di Vivian
operaia rovinata dalla crisi
«So nice, she was so nice, believe me…». Credimi, era così Vivian, bella, buona, simpatica dicono le sue amiche, che quella porta bianca della camera mortuaria del Policlinico di Zingonia non avrebbero proprio voluto aprirla. Sono arrivate solo martedì mattina, in gruppo, per il «riconoscimento».
Lei è sul lettino, dalle lenzuola esce solo il volto. È appena finita l’autopsia. Una donna si butta per terra urlando: «Vìvien! Vìvien! Vìvien!». Un’altra piange a dirotto. Un po’ lo fanno d’istinto, un po’ seguono un codice antico. Tra di loro c’è solo un ragazzo, le altre sono tutte donne, tutte nere, anche belle: jeans, giubbotti lucidi, occhiali da sole stilosi, una porta al collo una grossa croce: «Siamo cristiani noi, evangelici», non musulmani.
Dove abitano però non lo vogliono dire. Non si fidano. La parente più stretta è una zia, che avrà più o meno la stessa età della ragazza morta sabato nell’incidente di Pontirolo, dopo essere stata abbandonata in strada. È arrivata a mezzogiorno da La Spezia, ma non vuol raccontare nulla della vita di Vivian Alke, o forse dovremmo chiamarla Giulia perché le amiche usano ancora quel nome africano che sa un po’ di Hollywood ma a Zingonia la stessa ragazza ha un nome diverso, forse perché la consideravano già una mezza italiana.
Giulia non era una clandestina, no, era una ragazza regolare: «Aveva i documenti!» gridano le amiche. «Lavorava», in una fonderia. La domenica non mancava mai alla funzione religiosa. «Poi è arrivata la crisi» e sotto la faccia diurna di Giulia la notte è spuntata fuori di nuovo Vivian, la straniera, Vivian la nera, nome buono anche per un piccolo sogno cattivo, di sesso comprato in fretta in cambio di un trancio di pizza, della rata del subaffitto e di una ricarica per il telefonino.
Una nuova Vivian, non quella nata 26 anni fa a Freetown di fronte a una delle baie più belle dell’Africa, tra baracche di lamiera e spiagge oceaniche, campi da golf per i ricchi e bambini fatti a fette dalla guerra civile. Quando fosse arrivata a Zingonia non si sa. Forse due o tre anni fa.
Qui l’anagrafe ha un bel da fare: identificano magari con precisione due residenti ma poi di gente in questi palazzi ne gira tanta e nessuno sa bene chi siano, molti si rendono «irreperibili». Anche Vivian da circa un mese al Comune di Ciserano non risultava più, stava scivolando nella zona grigia dove passare il confine tra esserci e non esserci è facile. Aveva lavorato «in fabbrica» Giulia.
La sua scheda in Comune infatti conferma: «Operaio/a». Stato civile: non dichiarato. Clandestina come madre, quello sì, perché in Africa aveva un figlio, ma come immigrata era regolare. Una donna che lavorava sodo, «che non aveva paura di niente: un maschio». Poi è arrivata la crisi: c’è chi ha visto andare in fumo i titoli Lehman Brothers e chi si è trovato il frigo vuoto.
«Negli ultimi tempi Giulia lavorava in banca» dice un’amica. All’ultimo gradino naturalmente, donna delle pulizie, anzi più in basso, rincalzo occasionale di altre donne delle pulizie, ma l’hanno lasciata di nuovo a casa. Ha bussato a tante porte, ha chiesto aiuto. Piangeva. Non sapeva più a chi rivolgersi. Lei, cristiana evangelica, se n’è andata fino a Caravaggio, forse senza neppure sapere bene chi è la Madonna.
Ha bussato alla porta di un prete: «Padre, ma il Signore di me si è dimenticato? Io non ho niente da mangiare». Lui le ha dato un po’ di soldi per tirare avanti, ma sono finiti anche quelli. Vivian viveva in cima a un palazzo di sette piani con l’ascensore rotto. Il portone non ha la maniglia ma non ce n’è bisogno, perché i vetri sono infranti. Le porte di tutte le case qui hanno la serratura blindata e lo spioncino, se suoni i campanelli però nessuno apre.
Un cartello giallo avverte: «Le persone disordinate fanno schifo», e «disordinate» non vuol dire che lasciano i giocattoli in giro. Dietro la porta si sente piangere un bambino. Un altro cartello recita in inglese: «La mia famiglia è coperta, protetta dal sangue di Gesù». Sembra un segno pasquale, beneaugurante e tragico insieme.
Vivian era una ragazza «so kind, so cool», così gentile, così a posto eppure una sera di fame ha staccato un assegno scoperto alla vita ed è scesa in strada, senza dirlo a nessuno. Di ragazze come lei ce n’è tante qui intorno, la «domanda» bianca non manca, e l’«offerta» è nera, perché la donna africana costa meno, si ribella di meno, al buio si vede di meno, ci si preoccupa meno se una Vivian di Freetown scende in strada da sola alle 9 di sera e lo sanno anche le amiche dove andava anche se non lo dicono perché Vivian era una brava ragazza.
«E non era incinta», i carabinieri si sono sbagliati, nessuno poteva dire cosa avesse dentro questa donna, che stava scivolando via. Da domenica sulla strada fra Ciserano e Pontirolo di prostitute non se ne vedono più. Sono scomparse. Chissà cos’è successo davvero? Due delinquenti l’hanno tirata su, forse c’è stata una colluttazione, certo è che la Golf rubata su cui viaggiavano è finita fuori strada in pieno rettilineo. Vivian non aveva la cintura, la portiera si è aperta ed è stata sbalzata fuori, nel prato bagnato.
I due sono scappati. L’auto ha preso fuoco, cancellando ogni traccia. Difficilmente sapremo di più. Giulia è rimasta lì, nella notte, da sola, a vederla bruciare sotto il cielo nero, con l’odore della plastica nel naso e le costole rotte che le bucavano un polmone. Quando l’hanno soccorsa respirava. Parlava. Ha fatto fatica anche a morire.
Le sue amiche non hanno i soldi per il funerale; interverrà il Comune. Dicono agli infermieri che ci penseranno loro a lavarla e vestirla per l’ultimo viaggio, le donne africane queste cose le sanno fare, povera Vivian, non avrebbero voluto vederla così, con quelle cicatrici. In una macchinetta digitale hanno la sua fotostoria, tante immagini allegre, Giulia è vestita a colori e sorride. Le ultime le hanno scattate a quel corpo freddo.
Carlo Dignola
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