«Don Gnocchi è uno dei nostri
A Bergamo siamo di nuovo insieme»

Sono già quassù in Città Alta, alle 18 del giovedì, ché a loro stare quel tantino più in quota degli altri piace. Giubbotti sintetici, verdi, grigi, cappello e penna in testa ma di ombrelli aperti anche se piove non ne vedi: non sono usi, gli alpini. Braccia conserte sotto il protiro di santa Maria Maggiore, assiepati con i labari delle sezioni cittadine sotto Palazzo della Ragione, il Consiglio nazionale schierato ai due lati della porta del duomo aspettando che esca la salma del loro amico «don Carlo» che è già qui dalle 17. Sul maltempo che imperversa amano scherzare: «Va che sta uscendo il sole...». Uno ha inforcato un paio di occhialoni scuri, lenti da ghiacciaio. In effetti, osservando con attenzione tra le righe di acqua che cade fitta e leggera, noiosa, sopra il tetto del Battistero, a Occidente, un tenuo chiarore albeggia. L'alpino è così, il bicchiere per lui è sempre pieno anche quando è mezzo vuoto.

Per la città scorrazzano già i loro trabiccoli, motorini truccati da trattore sui quali salgono in quattro, senza casco - vivaddio sì! - procedendo a 5 chilometri l'ora. La città è piena di vigili ma sono vigili buoni oggi. A ogni incrocio si abbassa un finestrino e c'è qualcuno che domanda una strada, per la stazione, per lo stadio, per il cimitero: con i sentieri e le linee isometriche gli alpini non hanno bisogno di consigli, ma l'asfalto nero non è il loro elemento. E i bergamaschi accostano, alzano la visiera del casco, fanno a gara a spiegare dove andare.

La città da un lato si sta svuotando, dall'altro è già mezza piena di camicie scozzesi, odore di carni arrostite, di fanfare e clacson suonati a festa. Si montano le tribune, da viale Papa Giovanni è sparita come d'incanto la pista ciclabile più inutile d'Europa. Persino i tassì girano con il tricolore legato all'antenna dell'autoradio, anche se l'assessore provinciale Fausto Carrara di proposito non cita la Patria: a lui basta sentirsi «orgogliosi di essere alpini, orgogliosi di essere bergamaschi» e stop.

Tanti di questi soldati hanno ormai una certa età, è vero: «Io ho passato i 60» scherza uno, solido come un fusto di cannone. «Gli altri dopo, neanche li dico...». La lana del cappello ha dentro i buchi, il feltro se lo è mangiato il tempo ma queste adunate sono defilée di sottile eleganza morale, allure d'altri tempi si irradiano.

Arriva l'onorevole Mirko Tremaglia, sotto un ombrello arcobaleno beneaugurante. Il vescovo Beschi e il presidente nazionale dell'Ana, Corrado Perona, si salutano molto cordialmente. Dal duomo esce l'urna del beato don Gnocchi, il volto imbalsamato cereo, la veste nera da prete, le grosse scarpe con la suola troppo lucida e intonsa per essere vera. Portano il loro saluto il sindaco di Bergamo Franco Tentorio, il prefetto Camillo Andreana, il direttore generale dell'Asl Roberto Testa. Il presidente della Fondazione don Gnocchi monsignor Angelo Bazzari dice che don Carlo qui a Bergamo «è ritornato a casa, in queste valli in cui ha trascorso parte della sua vita e che sono state la culla di quelli che chiamava amichevolmente "i miei scarponi"». Lo ricorda come un uomo che «non aveva titoli né scientifici, né accademici e neppure ecclesiastici» eppure è stato un «fantasista della carità» che «ha cercato Dio in modo febbrile ma lo ha cercato dentro l'uomo, con quella lanterna, se volete, di Diogene che è l'amore».

Quello di Corrado Perona è stato il discorso più caldo: è contento che l'amico «don Carlo» sia di nuovo qui a partecipare a un'adunata nazionale degli alpini: «Non che prima fosse assente, lui è sempre stato con noi». Ricorda il suo rientro dalla Russia con lo zaino pieno delle piastrine di riconoscimento dei soldati ai quali aveva «chiuso gli occhi»: «Quello era uno zaino pesante, per i valori morali che portava». Don Gnocchi - dice Perona - «è uno dei nostri», uno di quelli che ha insegnato anche agli alpini come essere uomini per intero. Ricorda tutto quello che ha fatto dopo la guerra - «aiutato dalla gente», non da solo - per i piccoli mutilati, per i bambini poliomelitici. A nome dell'Ana, tra gli applausi, promette all'amico «che continueremo sempre a sostenere questa sua "baracca"».

Il vescovo Francesco Beschi durante la veglia di preghiera in duomo gli ha risposto ricordando in don Gnocchi non solo il «prete autentico, convinto, che ha consumato la sua breve vita nella carità» ma soprattutto la sua «intenzione educativa» in un momento drammatico per la storia del Paese: lì stanno fondamenta del nostro vivere civile e in pace che rischiamo di dimenticare. Quello di don Gnocchi è stato un cammino di crescita fatto poco di spontaneismo, poco di teoria e molto più di una «relazione vitale» nella quale l'educatore e l'educando - dice il vescovo - si trovano a crescere insieme perché «hanno davanti il valore più alto, che per don Carlo è stato senza dubbio il Vangelo e il Signore Gesù».

Tanti alpini hanno preferito seguire in piedi il momento di preghiera, che è durato un'ora e mezza. Quattro di loro hanno vegliato la salma di don Gnocchi fino alle 22.

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