Credo in un mondo senza cancro:
parole dell'ematologo Mandelli

Da Bergamo manca ormai da molti anni, ma la tenacia e la testardaggine tipiche della nostra razza non sembrano averlo mai abbandonato. Del resto, se si fosse privato di due simili «armi», difficilmente sarebbe riuscito ad affermarsi tra i più eminenti ematologi di tutto il mondo.

Franco Mandelli, ematologo quasi per caso (ma è meglio leggere il suo libro per capire perché), nato a Bergamo il 12 maggio del 1931, è infatti una delle punte di diamante della ricerca italiana nella lotta contro il cancro, in particolare contro il tumore che colpisce il sangue (leucemie e linfomi in primis).

Professore, quante ne sono state dette, quante se ne dicono e quante se ne diranno ancora di bugie sulla lotta contro il cancro?
«Credo che le persone serie non dicano bugie su una lotta importante come questa. Purtroppo ci sono notizie fasulle, anche in un campo in cui non dovrebbe essere consentito dirle, perché chi ci va di mezzo è il malato, soprattutto se sono bugie che fanno sperare in cure miracolose che non esistono, oppure che fanno pensare che questa sia una malattia incurabile, mentre invece non è vero».

Dopo anni di ricerca quali sono le cose certe nelle cura contro il cancro?
«Le parlo della cura dei tumori del sangue, quelli di cui mi occupo. Io ho iniziato ad occuparmi di leucemie, di linfomi e di altri tumori del sangue quando le speranze di guarigione erano praticamente pari a zero. Ricordo ancora quando veniva da me un bambino con una leucemia acuta, negli Anni '60: dovevo dire alla mamma che speranze non ce n'erano. La mamma, disperata, mi chiedeva "Ma com'è possibile?" E io rispondevo: "Quello che le posso dire è che se lei crede, preghi Dio, perché io speranze, purtroppo, non gliene posso dare". Allora si moriva in pochi mesi, se non in pochi giorni. Oggi le leucemie acute del bambino guariscono nell'80% dei casi: per me che ho vissuto in quell'epoca mi sembra un miracolo. Anche nell'adulto ci sono stati miglioramenti clamorosi che hanno portato a percentuali di guarigione un tempo impossibili da immaginare».

Nel libro fa riferimento al suo primo caso, una bambina di 13 anni cui era stata diagnosticata una leucemia.
«In quel caso non ce l'abbiamo fatta. Era il mio primo caso, abbiamo ottenuto una buona risposta, la malattia sembrava non ci fosse più, ma poi, purtroppo, ha cominciato a comparire una serie di problemi».

Oggi cosa succederebbe a quella bambina?
«Avrebbe più del 70% di probabilità di guarire. Anche se parlare di percentuali non mi piace mai, perché ogni malato è diverso dall'altro».

C'è stata una chiave di volta nei successi contro il cancro oppure è un insieme di tanti piccoli successi?
«Credo che la chiave di volta sia rappresentata da tanti piccoli successi che però ogni volta hanno rappresentato una chiave di volta. Quando abbiamo iniziato a trattare i linfomi di Hodching con la radioterapia i risultati erano quasi zero. Poi abbiamo iniziato con la chemioterapia utilizzando un farmaco solo: la chiave di volta è stata usare più farmaci insieme. Altra chiave di volta, la polichemioterapia e l'utilizzo delle cure collaterali».

C'è un capitolo del libro intitolato «La lezione dei miei pazienti». Qual è questa lezione?
«Il paziente vuole che il medico gli stia vicino. Io sono convinto che il medico, per fare davvero il medico, deve stare vicino con umanità al malato, deve ascoltarlo quando questi gli racconta i suoi problemi, deve assolutamente fare in modo che il malato abbia fiducia in lui. Ma va sottolineato anche il ruolo del volontariato e dei volontari che lo assistono: qualche volta è proprio il volontario che riesce ad avere le confidenze del malato, perché è più disponibile del medico».

Cosa ha imparato dai suoi malati?
«Soprattutto che bisogna dare al malato sempre una speranza».

Anche quando non ce l'ha?
«Anche quando non c'è».

È corretto?
«Secondo me sì, non è un falso quel che il medico dice in questi casi. Io ho visto cure straordinarie che non esistevano, che hanno cambiato la prognosi in malati che credevo perduti. Togliere la speranza, secondo me, vuol dire negare a tutti i malati quello che vogliono sentirsi dire, e non è giusto. Bisogna lasciare un filo di speranza al malato: anche se sa di essere vicino alla morte non lo vuol mai sapere. Vuole soltanto che tu gli stia vicino, che tu riesca ad essergli amico: non vogliono che il medico faccia il grande professore, che li tratti con lontananza parlando con parole che, in realtà, non spiegano assolutamente niente».

Perché ha scelto l'Italia e non gli Stati Uniti o l'Inghilterra?
«Sono rimasto in Italia per tanti fattori: mi ero sposato, avevo un bambino piccolo, andar via non era facile e poi mi ero appoggiato al prof. Jean Bernard di Parigi, di fama mondiale. In realtà perché amo l'Italia, l'amo profondamente. Forse il rimpianto più grosso è quello di aver creato tutto a Roma e non a Bergamo, la mia città, la che ho sempre portato nel profondo del mio cuore».

Il prof. Giuseppe Remuzzi chiude la prefazione al suo libro dicendo che «gli ammalati gli sono già grati, ora gli deve essere grata l'Italia»: non lo è?
«I malati mi sono molto grati, ma forse anche l'Italia lo è. Quando siamo stati ricevuti dal Presidente della Repubblica per i 40 anni dell'Ail, lo scorso anno, ho avuto una grande soddisfazione, perché che ha ricevuto tutti i volontari e i malati venuti da tutta Italia, dimostrando di essere riconoscente a quello che io, i miei medici e i miei volontari facciamo, a quello che l'Ail fa per l'Italia».

Lei ha toccato con mano, nel corso della sua lunga carriera, le difficoltà di cambiare le cose nel nostro Paese. Oggi è cambiato qualcosa o le difficoltà incontrate quarant'anni fa sono le stesse?
«Sono convinto che ci siano ancora adesso le stesse difficoltà. Anzi, forse quando ho iniziato questa corsa ad ostacoli c'era meno burocrazia: adesso, oltre a tutte le difficoltà di un tempo, ci sono regole che sembrano insormontabili. Noi facciamo una legge oggi, ti metti in regola con quella legge, e dopo cinque mesi è cambiata, e devi ricambiare ancora tutto. Ecco, questo vale anche per le questioni sanitarie. Noi abbiamo una casa alloggio per i malati che si chiama "Vanessa", in onore di una ragazza meravigliosa che ci ha lasciato qualche anno fa: in questa casa alloggio sono venuti i vigili del fuoco, ovviamente mandati da qualcuno, che ci hanno fatto rimettere tutto a norma, perché non era a norma: a me sarebbe piaciuto ribellarmi e portarli a vedere le pensioni lì vicine, che sono molto peggio. Siamo riusciti a rimettere a posto "Casa Vanessa", ma tutte queste regole cambiano continuamente».

Fare ricerca in Italia è difficile come 40 anni fa?
«È difficile per i fondi che mancano, è difficile perché il personale che puoi assumere è ridotto al lumicino, è difficile perché i ricercatori vengono pagati un quinto di quello che vengono pagati negli Stati Uniti e sicuramente la metà di quello che sono pagati negli altri Paesi d'Europa, è difficile perché i finanziamenti che l'Ail stanzia per la ricerca sono un centesimo di quello che realmente servirebbe. Però sono convinto che i ricercatori che l'Italia ha sono di un livello eccezionale e io dico sempre ai giovani che devono continuare, non devono mollare e devono avere una grande forza dentro che li spinge ad andare avanti, qualunque siano le difficoltà che incontrano».

«Ho sognato un mondo senza cancro»: istintivamente il titolo del suo libro mi dà l'idea più di una sconfitta che di una vittoria. L'ha sognato, ma non c'è...
«Per ora non c'è, ma sono convinto che verrà. Senza vuol dire proprio senza, senza vuol dire riuscire a guarire un cancro come una polmonite oggi: non sarà mai il 100%, perché non esiste, ma dovrebbe sempre arrivare al 90%, dando però oltre alla guarigione una grande qualità di vita del malato. Una volta ci accontentavamo delle cure con tanti danni per i malati, oggi invece vogliamo curarli dando al malato una buona qualità di vita che vuol dire molto, continuare lavorare, andare al cinema, uscire con gli amici, ballare».

Quanto c'è di speranza e quanto di realismo nella sua risposta?
«Quello di riuscire ad arrivare a quelle percentuali è ovviamente una speranza, anche se negli anni ho visto realizzare cose inimmaginabili. Il mieloma è una malattia difficile da guarire, se non con il trapianto. Una volta l'aspettativa di vita era di due anni, oggi il malato di mieloma può vivere dieci - quindici anni, ma vivendo bene e poi il malato curato oggi ha una prognosi migliore del malato curato 10 anni fa».

Ma il cancro sparirà dalla faccia della Terra oppure si chiamerà qualcosa altro?
«Io credo che il cancro sia una malattia che ha spaventato e spaventa tutti, infatti molti lo chiamano il male cattivo, brutto. Non so se ci sarà una malattia diversa al posto del cancro, ma la mia speranza è di eliminarne molte».
Alberto Ceresoli

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