L'ultimo a partire come soldato di leva
All'ex deportato la medaglia d'onore

Battista Nozza ha ricevuto la «Medaglia d'onore ai cittadini italiani deportati e internati nei lager nazisti 1943-1945», assegnata dalla presidenza del Consiglio dei ministri, consegnatagli dal presidente del Consiglio comunale Guglielmo Redondi.

Battista Nozza questa mattina ha ricevuto in casa sua in via Costantina a Colognola, la «Medaglia d'onore ai cittadini italiani deportati e internati nei lager nazisti 1943-1945», assegnata dalla presidenza del Consiglio dei ministri in base a una legge del 2006. La medaglia gli è stata consegnata dal presidente del Consiglio comunale di Bergamo, Guglielmo Redondi.

Battista Nozza, classe 1924, ha ricordato quei giorni lontani: «Arrivarono gli americani e ci liberarono. Eravamo in un campo vicino a Berlino, non sapevamo che cosa fare in quel caos. Ci radunammo in una ventina e ci mettemmo in cammino, i nostri stracci messi su un carretto. Camminammo fino a Innsbruck, ottocento chilometri».

Sessantacinque anni dopo, Battista Nozza ricorda quei giorni seduto nella sua casetta di Colognola. La memoria è ottima, lucida. Camicia bianca, maglioncino e pantaloni grigi, ben stirati. È passata una vita, Battista è emozionato, ma parla volentieri, racconta del suo amore per la musica, del suo violino e del suo pianoforte, delle sue tre figlie che gli hanno dato otto nipoti. Mostra la fotografia della moglie Edvige che non c'è più da sedici anni. Racconta della prigionia.

«Credo di essere stato l'ultimo a partire come soldato di leva, era il 26 agosto 1943, me lo ricordo bene perché era Sant'Alessandro. Sono uscito dall'oratorio e sono partito per Merano, alpino. Mi diedero la divisa, gli scarponi chiodati. Dopo due settimane era l'8 settembre. Noi in caserma eravamo tremila, ma dai generali non arrivò alcun ordine. Così ricordo che arrivarono due camionette di tedeschi con le mitragliatrici e noi deponemmo le armi. Fu una vergogna per noi italiani».

Cominciò l'odissea di Battista e degli altri tremila alpini. Furono portati a piedi a Bolzano, caricati sui treni. «Nel vagone merci eravamo in sessantadue. Ogni tanto aprivano il carro, delle donne, come crocerossine ci davano acqua e qualcosa da mangiare. Dopo una settimana siamo arrivati a Berlino, io ero nel campo di Berlin Spandau. Lavoravamo in fabbrica, dodici ore al giorno, io ero al tornio, lavoravo pezzi di carri armati e dei razzi V2. La cosa più tremenda? La fame».

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