Simone Moro è tornato a casa
Il racconto della scalata al «G2»

Sulla vetta del Gasherbrum 2, raggiunta per la prima volta in inverno lo scorso 2 febbraio, ha gioito con le braccia alzate, poi ha avuto un gesto di rabbia, quasi un pugno sferrato al vento, infine si è piegato sulle ginocchia e ha pianto. Simone Moro è ritornato a casa.

Sulla vetta del Gasherbrum 2, raggiunta per la prima volta in inverno lo scorso 2 febbraio, ha gioito con le braccia alzate, poi ha avuto un gesto di rabbia, quasi un pugno sferrato al vento e diretto chissà dove e chissà a chi, infine si è piegato sulle ginocchia e ha pianto.

Ha pianto pensando a suo padre (scomparso nel 2002) Simone Moro. Quasi un abbraccio ideale. Che, al suo rientro, mercoledì sera, i parenti assieme agli amici più stretti - dal grande Mario Curnis al presidente del Cai di Bergamo Paolo Valoti - gli hanno voluto restituire. Una festa in famiglia, anzi due famiglie: quella di sangue e quella della montagna.

Simone, c'è tutto il tuo mondo qui.
«Sì c'è la mia famiglia naturale e c'è pure quella adottiva. Alla prima e in particolare a mio padre, che è sempre stato un punto di riferimento importantissimo, devo gli insegnamenti fondamentali sia in montagna ma soprattutto nella vita. La seconda è una grande cordata fatta soprattutto di sentimenti, oltre che di esperienze comuni in quota e non solo».

Simone torniamo sul Gasherbrum: come siete riusciti tu e i tuoi due compagni (gli altri due atleti del Team The North Face Denis Urubko e Cory Richards) là dove tutti provavano senza successo da 25 anni? «Sicuramente una serie di fattori vincenti. Innanzitutto avevamo davvero voglia di andare in cima. La rabbia, la capacità di soffrire, l'esperienza, la fame di avventura ed esplorazione hanno rappresentato il carburante con cui abbiamo inesorabilmente messo un passo davanti all'altro dai 5.100 metri del campo base agli 8.035 metri della vetta».

Ascolta l'intervista a Simone Video aprendol il video allegato

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