Genitori dietro le sbarre:
ci sono diritti da difendere

In tempi di carceri affollate, di proteste, di dibattito politico sulla necessità di un'amnistia o di un nuovo indulto, il progetto che sta promuovendo la Casa circondariale di Bergamo sembra arrivare da un altro pianeta. L'obiettivo sono i detenuti genitori.

In tempi di carceri affollate, di proteste, di dibattito politico sulla necessità di un'amnistia o di un nuovo indulto, il progetto che sta promuovendo la Casa circondariale di Bergamo sembra arrivare da un altro pianeta. L'obiettivo sono i detenuti genitori, i papà e le mamme che si trovano in carcere.

Il fatto che siano detenuti, è il senso del progetto, non significa che debbano rinunciare al loro ruolo di padri e madri. Per questo, dopo una fase sperimentale con piccoli gruppi e alcuni momenti significativi come quelli di Natale e Pasqua, quando le famiglie dei detenuti si sono trovate a festeggiare insieme nella palestra dell'istituto - un caso che non ha precedenti nella storia penitenziaria italiana - il carcere vuole coinvolgere altre istituzioni del territorio, dal Comune ai consultori, dalle fondazioni ai sindacati.

Anima di questo progetto è il professor Ivo Lizzola, preside della facoltà di Scienze della Formazione e ormai da 12 anni attento e partecipe frequentatore della Casa circondariale di Bergamo, non solo per ragioni professionali («per i miei studenti fare tirocinio in via Gleno è un'occasione unica»), ma anche perché per un educatore il carcere rappresenta una sfida formidabile.

Dal confronto con i detenuti emerge, fortissima, la paura di essere padri che hanno sbagliato, la voglia di sottrarsi, di fuggire, ma allo stesso tempo la necessità di dare risposte ai propri figli, di essere, nonostante tutto, ancora un punto di riferimento importante.

Il progetto si rivolge anche alle famiglie dei detenuti. L'idea è quella di far comunicare e collaborare non solo i familiari, ma anche le istituzioni tra dentro e fuori: «Pensiamo per esempio alla scuola - dice Lizzola -. Quest'anno due ragazzi figli di detenuti non sono stati ammessi all'esame di terza media. Se li avessimo seguiti fin da subito, coinvolgendo i loro padri in carcere, forse le cose avrebbero preso una piega diversa».

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