Detenute imparano a fare le sarte
E fanno gli abiti per i carcerati

Due stanze, un piccolo magazzino, un paio di macchine per cucire, forbici, cartoni, disegni. È il laboratorio della comunità Samaria delle suore delle Poverelle, che ospita detenute agli arresti domiciliari.

Due stanze, un piccolo magazzino, un paio di macchine per cucire, forbici, cartoni, disegni. È il laboratorio della comunità Samaria delle suore delle Poverelle, che ospita detenute agli arresti domiciliari. L'atmosfera è familiare, anche se l'apparenza non deve ingannare. Ci sono delle regole precise: si inizia a lavorare alle 9, pausa alle 12, ripresa alle 14 fino alle 18. Non si può uscire, se non per permessi speciali o in occasioni particolari, il tempo libero è scandito dalle esigenze della piccola comunità.

Le ospiti, attualmente tre (ma la struttura ne può ospitare fino a otto) oltre a imparare i rudimenti del mestiere si confrontano anche con le regole della convivenza e con i ritmi del lavoro. A coordinare la piccola comunità, da qualche mese, c'è suor Simona Carne, originaria di Cologno al Serio, che ieri ci ha introdotto con entusiasmo nei locali della comunità. Con l'aiuto di suor Mina e di uno staff tutto femminile di educatrici (grazie alla Caritas diocesana) e volontarie, le detenute qui confezionano abiti a tempo pieno: tute, maglie, pantaloni, pigiami, salviette, tutti destinati al carcere di via Gleno, dove sono sempre più numerosi i detenuti che, senza un soldo e senza nessuno che si prenda cura di loro, entrano in carcere solo con i vestiti che indossano. In questo periodo stanno confezionando anche prodotti natalizi: pupazzi e decorazioni a tema che saranno in vendita da domani al punto di esposizione dei prodotti dell'economia carceraria in via Settembre.

Casa Samaria è un piccolo prodigio di economia solidale, di arte del riuso, di capacità di fare rete sul territorio. La materia prima, la stoffa, arriva dalle aziende del territorio. Il know-how è frutto dell'esperienza di chi ci lavora: suor Simona è figlia di una sarta, molte delle volontarie hanno esperienza da vendere, e anche qualche detenuta. Il sostentamento della comunità è a carico della fondazione Opera Pia Caleppio Ricotti, che tra le sue finalità ha proprio il reinserimento di detenuti. Il lavoro, in questa comunità, è innanzitutto uno strumento di riscatto. Il tempo trascorso a casa Samaria è l'occasione migliore per riabituarsi alla vita fuori. Molte delle ospiti, infatti, dopo la permanenza di qualche mese in comunità, ottengono l'affidamento ai servizi sociali e devono essere pronte a una vita autonoma. Il «training» di casa Samaria, con i suoi ritmi uguali, la convivenza con donne che provengono dalle esperienze più diverse, è l'antidoto più efficace contro la recidiva. Ce lo raccontano anche due ospiti: Marta e Rosa (i nomi sono di fantasia). Marta, 44 anni, filippina, tre figli in patria, in Italia lavora come badante e baby sitter. Non aveva mai avuto problemi con la giustizia e la condanna per droga che sta scontando la riempie di vergogna, tanto che la sua famiglia non sa niente della sua attuale condizione. «È dura – racconta – non riesco più a mandare soldi a casa, mia madre sta male e non posso tornare in patria per trovarla. Ma tengo duro, qui ho imparato tante cose e spero che potrà aiutarmi nella vita fuori». Rosa, trent'anni, una vita tra Grecia, Germania e Spagna, in carcere ci è entrata per un colpo di testa. Ironia della sorte, in Spagna insegnava agli immigrati il lavoro di taglio e cucito. Poi arrivò la crisi, le dimezzarono le ore e arrivò la proposta: «Un'amica mi propose di portare soldi in Italia e io stupidamente non ci pensai nemmeno e accettai». Rosa è uno dei tanti corrieri, insospettabili e incensurati, utilizzati dalle organizzazioni di narcotrafficanti lungo le rotte aeree europee. Tanti la passano liscia, qualcuno, ogni tanto, viene preso. Quando il cane antidroga abbaiò al controllo dell'aeroporto di Orio, Rosa capì per lei il viaggio terminava lì. «Sono stata fortunata, in carcere sono stata solo due settimane, ma qui non significa certo essere a casa: devo scontare una condanna a due anni e otto mesi, non ho più rivisto mio figlio di sette anni e mia mamma non mi ha mai perdonato per quello che ho fatto. Qui però ho imparato molto: soprattutto che per vivere bene bisogna anche saper rinunciare a qualcosa».

Paolo Doni

© RIPRODUZIONE RISERVATA