Auguri all'hotel Città dei Mille
40 anni vissuti intensamente

Un anniversario speciale quello dell'Hotel Città dei Mille, a Bergamo. L'albergo, il cui titolare è sempre stato Pier Carlo Capozzi, compie 40 anni, Vissuti intensamente.

Dicono che l'uomo misura il tempo, ma che alla lunga sia il tempo a misurare l'uomo. Sarà per questo che mentre parli con Pier Carlo Capozzi dei 40 anni del Città dei Mille - l'hotel di cui è titolare sin dalla sua apertura - fatichi a capire se sia lui a misurare il tempo, narrando il succedersi degli eventi, o non sia piuttosto il tempo - attraverso quello stesso succedersi di eventi - a dare la misura dell'uomo. Quarant'anni vissuti intensamente. Quarant'anni raccontati - per dirla con Giosuè Carducci - «con gli occhi incerti tra 'l sorriso e il pianto», perennemente in bilico tra l'allegria di chi sa apprezzare le cose belle (e quelle buone...) della vita, e la profonda sensibilità di chi è capace di commuoversi senza falsi pudori al ricordo della mamma, di uno zio, di un amico. Ma anche di uno sconosciuto del quale, anni prima, ha condiviso ansie o drammi in una notte insonne nella hall.

«Perché noi - dice Capozzi - non siamo qui a distribuire chiavi e riscuotere conti. L'ospite lontano da casa deve trovare in albergo qualsiasi tipo di risposta, anche di attenzione ai suoi problemi». Nulla di strano, così, se prima ancora dei tanti vip passati da queste stanze ad affiorare dai ricordi è una famiglia milanese, mamma, papà e nonna: «Arrivarono tanti anni fa, con il loro bambino che doveva essere sottoposto a un delicato intervento al cuore. Era dicembre, e il soggiorno si protrasse fin dopo Natale. La sera della Vigilia mi chiesero dei panini (da noi non c'è ristorante) e questo mi portò a confrontare la loro Vigilia con la mia. Così andai a comprare una tovaglia rossa e feci un salto in rosticceria, in modo che trovassero la tavola imbandita. Poi l'intervento riuscì e per anni, con gli auguri di Natale, mi mandarono la foto del bambino, che cresceva sano e bellissimo». Pasticcio alla francese Decisamente diverso, ma ugualmente a lieto fine, l'approccio con un distinto signore che «una notte si presentò al bancone, tirò fuori di tasca la carta d'identità e disse: "Credo proprio che mi dobbiate fare uno sconto". E lo ottenne, quando vidi il suo nome sul documento: Giuseppe Garibaldi». È uno dei tanti aneddoti legati al nome dell'hotel, nato dall'idea di un ispettore della Guida Michelin durante un pranzo all'Agnello d'oro, il primo albergo della famiglia Capozzi, tuttora diretto dal capostipite Pino: «Lui propose Hotel dei Mille, io ci aggiunsi il "Città". Fu subito un successo. È un nome che resta impresso, soprattutto agli stranieri».

Un omaggio a Bergamo e al suo contributo alla spedizione dell'Eroe dei due mondi, di cui nell'hotel abbondano i cimeli, «alcuni comprati, altri regalati: editti originali, lettere autografe, statuette, persino una ciocca dei capelli biondi del generale». Nel 1994 Capozzi si vide recapitare una lettera da Roma, mittente l'Istituto internazionali di studi «Giuseppe Garibaldi»: Erika Garibaldi (vedova del generale Ezio, nipote del condottiero) lo ringraziava perché «in questo modo si contribuisce a tenere viva la tradizione garibaldina». Detto della genesi del nome, resta però da raccontare quella dell'albergo, non meno avventurosa delle gesta evocate dall'insegna. Era l'inizio degli anni Sessanta, e il piccolo Pier Carlo accompagnava papà Pino nelle sue scorribande al volante di un mitico furgone Romeo su cui era stata fatta montare una cella frigorifera: «Vendevamo il gelato d'estate e il pesce d'inverno, rifornendo i ristoranti e facendo i mercati. Siccome i grossisti erano a Brescia o a Milano, finivamo sempre in autostrada. E ogni volta che passavamo di qua mio padre sospirava, guardando quest'area abbandonata e piena di sterpaglie: "Se avessi i soldi, qui ci farei un bell'albergo". I soldi arrivarono dieci anni più tardi, grazie all'Agnello d'oro aperto nel frattempo (1964). E quel terreno era ancora lì. Non perché a Bergamo non ci fosse nessuno con i soldi per costruire un albergo in via Autostrada, ma perché nessun altro aveva avuto l'idea. In questi 40 anni non ho mai dimenticato neppure per un istante come in ognuno di questi mattoni ci siano il genio intuitivo di mio padre e i sacrifici di mia madre, che con il suo lavoro su all'Agnello d'oro era la colonna portante della famiglia». Già, mamma Elena. Sarebbe toccato a lei accompagnare il ventenne Pier Carlo nell'inizio della nuova avventura imprenditoriale, ma un destino atroce se la portò via a fine novembre del 1971, quando il Città dei Mille era ormai quasi pronto: «La fretta di aprire, a quel punto, passò. E poi ci furono i ritardi di ogni cantiere che si rispetti. Ma siccome a Bergamo sono pochi quelli che accettano di buon grado che qualcuno ce la faccia, cominciarono a girare voci insistenti, tipo "l'hanno fatto troppo lussuoso e sono finiti i soldi", oppure "tanto loro sono solo i gestori". In realtà, l'impresa che costruì lo stabile ci propose addirittura di acquistarlo tutto, e ne sarebbe uscito un hotel da 100 camere. Ma in famiglia non abbiamo mai fatto un passo più lungo della gamba, e restammo sul progetto originario di 40 camere».

L'inaugurazione fu il 12 aprile 1972, alla presenza dell'allora ministro per il Turismo Giovan Battista Scaglia. Giusto in tempo per la Fiera campionaria di Milano, all'epoca evento unico nel suo genere: «La prima camera (la 445, una due letti al piano verde) fu affittata a due agenti di commercio. Costava 6 mila lire. All'epoca a Bergamo c'erano già fior di alberghi, ma solo due avevano tutte le stanze con bagno: L'Agnello d'oro e il Città dei Mille». Un legittimo motivo d'orgoglio per la famiglia Capozzi, anche se proprio dal bagno in camera nacque un vero e proprio caso diplomatico, peraltro destinato poi a risolversi come uno dei più divertenti aneddoti di questi primi 40 anni: «Accadde che un francese, per chissà quale assurdo motivo, salito in stanza non trovò il bagno (c'era la porta chiusa e probabilmente non la vide) e scese a chiederne conto alla reception. Dove era in servizio un ragazzo bravissimo, che parlava inglese e tedesco alla perfezione, ma sul francese aveva qualche problemino». Il malcapitato capì che l'interlocutore cercava una «salle de bal» (sala da ballo) anziché la «salle de bain» (sala da bagno) e ne nacque una tremenda commedia degli equivoci che raggiunse il culmine quando il portiere indicò al cliente che ciò che stava cercando (o che lui pensava stesse cercando) si trovava a Dalmine, a circa 6 chilometri da lì... Altri tempi. Oggi chi arriva al Città dei Mille da qualsiasi angolo del mondo ha già visto tutto sul sito Internet, dopo aver scelto la sistemazione grazie alla sua posizione strategica: «Siamo appena fuori dall'autostrada, a cinque minuti di auto dall'aeroporto e vicinissimi anche alla stazione. E i clienti apprezzano, come apprezzano parecchio un'altra delle peculiarità del nostro albergo, la colazione a buffet con i prodotti tipici del territorio. È sempre stato un mio chiodo fisso». Posizione e qualità del servizio hanno fatto da calamita anche per una sfilza interminabile di vip, del cui passaggio resta traccia sul registro delle presenze. C'è lo sport, con John Charles, Gigi Riva, la Valanga azzurra dello sci. Ci sono il giornalismo e la cultura con Marino Bartoletti, Fausto Biloslavo, Oliviero Beha, Gianni Minà, Marcello Veneziani. C'è lo spettacolo con Alberto Lupo, Ave Ninchi, Valeria Valeri. C'è, soprattutto, tantissima musica con Lucio Dalla, Francesco Guccini, i Pooh, Vasco Rossi, Luciano Ligabue, Samuele Bersani, Enrico Ruggeri, Fred Buongusto, i Ricchi e poveri e grandi nomi del jazz come Max Roach e Art Blakey («Si esibivano al Bobadilla, nostro coscritto del 1972»). Balza agli occhi la pagina di Gianni Morandi, tornato al Città dei Mille nello stesso identico giorno a distanza di 21 anni: il 25 febbraio del 1983 e del 2004. E una dedica: «Al sagittario direttore»: «È nato l'11 dicembre come me ? spiega Capozzi ? e sulla coincidenza abbiamo scherzato un sacco di volte». E poi i New Trolls, la cui pagina è una vera opera d'arte: «Venivano spesso. Una volta, collaboravo con Rtl, organizzammo un indimenticabile collegamento radiofonico in diretta dalla loro stanza». Sì, perché Pier Carlo Capozzi è anche giornalista, e di razza. Collaboratore de L'Eco e de Il Giornale, con Indro Montanelli prima e Vittorio Feltri poi, avrebbe potuto tranquillamente seguire quella strada fino in fondo, se non ne avesse avuta una diversa già tracciata dai cromosomi: «Diciamo che l'albergatore è la professione della tradizione di famiglia, ma il giornalismo è quella del cuore. Perché lì ci siamo solo io e la mia tastiera». Proprio nel mondo del giornalismo sono nati alcuni dei suoi legami più veri e profondi. E non è un caso se quando gli chiedi un flash a bruciapelo di questi 40 anni indica con lo sguardo il suo studio e risponde: «Le notti passate là dentro, nella più sfrenata goliardia, con Titta Pasinetti e Daniele Vimercati, grandissimi giornalisti e cari amici volati anch'essi in cielo troppo presto. Quando finivano di lavorare a Milano piombavano qui, e con un gruppetto di altri disgraziati come noi ne combinavamo di tutti i colori». È l'ultima concessione al passato, prima che nella hall del Città dei Mille irrompa il futuro. Alessandro, il figlio di Pier Carlo, ha 33 anni, la stessa grande passione di famiglia, una laurea in Economia e commercio nel cassetto («tesi sul turismo, non poteva essere altrimenti») e due scuole di vita di quelle che danno una marcia in più. Una è il rugby, sport che rende forti nel fisico e nei sentimenti, misurando l'uomo almeno quanto lo misura il tempo. L'altra, naturalmente, è papà Pier Carlo.

Piero Vailati

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