«Non so fare il latitante
Voglio rientrare in Italia»

Edoardo Montolli, giornalista del quotidiano on line «l'Indipendenza», ha intervistato in esclusiva Flavio Tironi, il giovane di Mozzo accusato di aver ucciso, con la complicità del padre, la mamma Gemma. Per gentile concessione, ecco il testo dell'intervista.

Edoardo Montolli, giornalista del quotidiano on line «l'Indipendenza», ha intervistato in esclusiva nelle scorse settimane Flavio Tironi, il giovane di Mozzo accusato di aver ucciso, con la complicità del padre, la mamma Gemma. Per gentile concessione, pubblichiamo il testo integrale dell'intervista.

di Edoardo Montolli

«Sono innocente e ho smesso di avere paura, la paura che ti inculcano obbligatoriamente percorsi di questo tipo…vogliono venire a prendermi…no meglio che vado io a prendere loro…e come disse mio padre… “se sei una montagna non ti sposti”. Credo sia un proverbio bergamasco».

Se ne sta seduto al computer di un locale brasiliano. Dice che è ancora per poco. Il 25 luglio, nel pomeriggio, cioè oggi, si dovrebbe costituire all'ambasciata locale. Si chiama Flavio Tironi, ha 48 anni, nato in Svizzera, ma residente a Mozzo, provincia di Bergamo. In fuga per quattro anni dopo un processo che ne è durati quattordici, in cui è stato condannato con suo padre Michele per avere ucciso sua madre. Un processo in cui non solo loro si sono sempre dichiarati innocenti, sostenendo che la donna si fosse uccisa, ma dove delle 45 parti civili possibili, tra cui 13 tra fratelli e sorelle della vittima, nessuno si costituì in aula, un record: nessuno dei famigliari pensava e pensa che possano avere ammazzato Gemma Lomboni nel lontano 1994.

«Ben quattro sorelle dichiarano in aula di aver sentito mia madre dire che voleva farla finita con la vita…e che non avevano dato peso a questa volontà…lo stesso medico di famiglia…mi conosce da quando sono nato…afferma la medesima cosa…nel giorno del decesso il medico del paese…un mio coetaneo…saputo il fatto raggiunge casa nostra, ma gli viene impedito di verificare lo stato di decesso di mia madre… “lasci stare ci pensiamo noi”…dichiarano quelli della scientifica…».

Sarà un processo estremamente controverso: assolti a Bergamo nel 2002, condannato il solo Flavio a Brescia in appello nel 2003, Cassazione che annulla nel 2004. Nuovo processo alla Corte d'Assise d'Appello di Milano nel 2005, che assolve entrambi. Annullamento del processo in Cassazione nel dicembre del 2006. Nuovo processo in appello a Milano nel 2008 in cui entrambi vengono condannati a ventidue anni. E Cassazione che conferma definitivamente la sentenza il 3 dicembre 2008.

Per allora Flavio, dopo due ricoveri in psichiatria per lo stress di dover affrontare un'accusa tanto terribile, per di più in combutta con il padre (e marito della vittima) è già altrove, lontano.

«Già dopo la sentenza di appello di Brescia, un amico carabiniere di mio padre gli disse “ti conviene vendere tutto quello che hai e andartene perché ti toglieranno tutto quanto”… si è esattamente verificato questo. Mio padre una settimana prima della sentenza a Roma mi diede dei soldi…sapeva benissimo che non sarei rimasto in Italia ad aspettare gli inquirenti… questo solo perché volevo essere presente al parto della mia compagna e accudire con lei il piccolo…sino ad ora. Mentre mio padre disse: “sono vecchio dove vuoi che vada”».

Già. Perché Flavio in latitanza è diventato papà di un bimbo che sarebbe nato da lì a due mesi dalla sentenza definitiva. E il lungo racconto che fa della sua fuga che sta per terminare parte da lontano, da quell'estate 1994, quando lui di anni ne aveva solo trenta. Dal giorno della morte della mamma.

«Io ero attaccato a mia madre, è chiaro, è naturale. La portavo a fare la spesa da quando avevo preso la patente, anche prima dell'incidente che subì e che fu la causa del suo suicidio. Ma chi è quella persona che può andare contro la propria madre? Poi, tra virgolette, sei figlio unico, sei coccolato. Ma come si può pensare che io l'abbia uccisa, e per di più con mio padre?»

Torniamo indietro e spostiamoci in provincia di Bergamo, per capire ciò che accadde.

IL FATTO
Il 28 giugno 1994, nella cantina della villetta di famiglia di Mozzo, Flavio e Michele trovano Gemma a terra. Quattordici gradini più su si apre il laboratorio di falegnameria di Michele. Sul soffitto della cantina, a quasi due metri da terra, ci sono dei ganci metallici. Ad uno è appeso un cappio formato da una guarnizione in gomma. Alle 17,10 Flavio compone il 113 e avverte della sciagura. Poi, chiama il 118. Quando la polizia arriva la donna è supina, con le braccia distese lungo il corpo: è stata voltata dai soccorritori per effettuare un elettrocardiogramma. Ha ferite sulle ginocchia. Padre e figlio dicono che la porta era chiusa dall'interno e l'hanno forzata. Gemma, pensionata, si sarebbe impiccata all'età di 56 anni e sarebbe quindi caduta a terra.

Una volta trovatala, Flavio avrebbe staccato il cappio dal gancio, appoggiandolo su una mensola. Perché si è uccisa? Per via di un incidente domestico, ritengono i due, che le aveva procurato la rottura di un ginocchio sullo stipite di una porta. E che l'avrebbe portata a camminare male e conseguentemente alla depressione, convinta com'era che le sarebbe stata amputata una gamba. L'autopsia avviene senza contraddittorio perché indagati non ce ne sono.

Ma il referto è scioccante: la donna sarebbe morta non per impiccagione, ma per “asfissia da strozzamento” con una “costrizione manuale del collo con compressione manuale dell'apertura orale”. Il che, ovviamente, cambia tutto. Scatta l'ipotesi di omicidio.

Per quattordici anni tutto sarà basato su questo, in una lunghissima battaglia di perizie sul referto autoptico: da una parte gli esperti che parlano di strozzamento, dall'altra altri esperti che propendono per l' impiccagione. Certo, il medico legale, quando deve indicare l'ora della morte non è stato altrettanto preciso. Scrive: “decesso avvenuto nelle prime ore del pomeriggio”. Che vuol dire tutto e non vuol dire niente. Perché si tratta di un raggio di ore così ampio che qualsiasi alibi può non reggere. Succede qualcosa di più, in aula, di grottesco: un ispettore mostra il cappio ai giudici. Ha un nodo definito “fisso”: il che è cruciale per capire se e come possa avere strozzato la donna o se sia stata una mano a stringerle il collo. Solo che l'ispettore, per mostrare che è fisso, lo tira: e il nodo si scioglie. Nessuno l'ha mai misurato. Una prova viene così “bruciata” sotto gli occhi di tutti.

Per quattordici anni resteranno così domande appese al vuoto: perché, se la volevano uccidere in un accordo scellerato tra padre e figlio, Flavio tolse il cappio dal gancio che simulava l'impiccagione? Perché, se la stavano uccidendo, non chiusero la porta della falegnameria, lasciando che tre clienti vi entrassero nel pomeriggio? Perché, se era stata uccisa, dovevano essere stati loro, dato che non vi era traccia di quale fosse l'eventuale mano dell'assassino? Soprattutto, perché avrebbero dovuto ucciderla?

L'ultimo difensore di Flavio, Claudio Defilippi, andrà a caccia di nuove prove dopo la sentenza definitiva, trovando diverse persone che dissero che Gemma voleva farla finita. Trovando chi diceva che beveva perché era depressa. «Flavio – spiega il legale- aveva un alibi per una determinata ora, ma il suo amico, da cui stava, non fu creduto. Chiederemo la revisione con una nuova perizia che stabilisca finalmente l'orario della morte, cosa non difficile dato che la donna aveva ancora in corpo, non digeriti, i resti del pranzo».

Tra i moventi trovati, c'era la gelosia della donna per il marito che la tradiva, secondo quanto verbalizzato. Solo che la teste che lo avrebbe sostenuto, nella deposizione raccolta di Defilippi, dirà che lei dichiarò che Gemma aveva solo paura che il marito la tradisse. E non che lui lo faceva davvero.
Ma quand'anche fosse così, com'è possibile conciliare questo movente con quello di Flavio? Il marito vuole sbarazzarsi della moglie gelosa e il figlio lo aiuta a strozzarla e a simulare l'impiccagione?

Michele Tironi è morto un anno fa.
Flavio, di mestiere cuoco, sta per tornare in Italia. Ed è tempo che riprendiamo la sua storia di oggi, in Brasile.

IL FUGGIASCO
«Il movente? Non ne hanno tirato fuori neanche uno buono, uno peggio dell'altro. Mia madre era in pensione, io lavoravo, mio padre pure. Lei era altamente depressa. Infatti al medico l'avevamo detto. Ma aveva alti e bassi, non era tutti i giorni così. Per un certo periodo ho anche dubitato di mio papà, pensando che fosse stato lui. Mi era stata inculcata all'inizio questa cosa… e io avevo perso mia madre… ci stavo credendo. Ma il dubbio è durato meno di un paio d'anni. Se l'ho pensato era naturale e ovvio, ma poi me lo sono tolto».

Perché ha deciso di scappare?
«La mia compagna, conosciuta tra il '99 e il 2000, era incinta di sette mesi. Quando siamo partiti lo sapevamo già entrambi che saremmo rientrati. Ma volevo vedere la nascita di mio figlio, stargli accanto almeno all'inizio. Non è per niente facile distaccarsi dalle cose che ami… sia quelle del passato, parlo di quelle lasciate in Italia sia di quelle del presente… anzi queste sono ancora più dolorose: ma come si fa ad interrompere questo periodo di sassi sopra la testa ? Prima di partire alla volta del Brasile e coscienti della scelta che stavamo facendo…parlo del piccolo…eravamo comunque consapevoli che prima o dopo dovevamo farne i conti, ma siamo contenti cosi… lui è una meraviglia…e senza dubbio ci ha dato un aiuto per muoverci qui al di là di ogni sospetto, una famiglia è sempre vista meglio di una persona sola che emigra per formarsi una nuova vita… ma di errori ne abbiamo combinati …non eravamo preparati… e la latitanza costa soldi…»

La paura.
«Un esempio. Arrivato in Brasile ho cercato di crearmi un lavoro… questo prima. C'è bisogno di un conto in banca per avere una di quelle macchinette per pagare con la carta di credito, che qui usano tutti. Il piccolo aveva già 6 mesi. L'idea era di aprire un ristorante piccolo in riva al mare, il sogno televisivo dei latitanti. Ma serviva un permesso dalla Federale, l'organo di polizia: risultato, vengono a casa personalmente dichiarando a dei vicini che lei era a posto ma io NO. Fortuna vuole che quel pomeriggio non fossimo in casa. Il giorno dopo era sabato…lasciamo un locale già affittato per un anno, una casa piccola sempre in affitto ma con un pezzetto di giardino buono per il piccolo, e una fornitura di materiale per cucina già pagata che dovevano consegnare il lunedì seguente: abbiamo preso il primo autobus di mattina presto e ci siamo allontanati da lì, cambiando Stato».

Gli italiani.
«Scegliamo così una città non troppo grande e incomincio a raccontare che sono in pensione, una pensione privata che ci permette di vivere. Iscriviamo il piccolo ad una scuola: ha bisogno di amici e soprattutto di giocare con loro. Presentando alla Federale l'atto di nascita del piccolo automaticamente la mia compagna riceve un permesso di permanenza sul passaporto italiano ed un c.p.f., un numero di codice fiscale brasiliano: questo ci ha consentito di iscrivere alle scuole il bimbo… La casa è praticamente una stanza con il letto, il bagno , un fornello ed un frigorifero. Poi i soldi iniziano a scarseggiare, la latitanza costa ed io non produco nulla. Questa storia che ho alle spalle si fa più pesante vedendo tuo figlio che sta crescendo rapidamente. Nel frattempo faccio un colloquio con il gestore di un noto ristorante di buon livello che si occupa di cucina italiana, ma che non ha nessun dipendente dall'Italia. Gli do un piccolo testo su cui scrivo le mie capacità nel preparare pasta fatta a mano che qui piace molto: mi mette alla prova un paio di giorni…è soddisfatto. Ma quando mi cerca il permesso di soggiorno per mettermi in regola, mi mordo dentro e invento la storia che ero già in pensione e che se avessi lavorato in regola la pensione che prendevo dall'Italia si sarebbe bloccata…socchiude gli occhi facendo un sorrisino: “puoi anche dirmelo che ti è scaduto il permesso di soggiorno, a me non mi importa. Ma questo è un noto ristorante e abbiamo frequentemente dei controlli…lo dico per te” . Per la paura che potesse raccontare qualche cosa a qualcuno ci spostiamo nuovamente. Non siamo solo tristi, lo sconforto inizia maggiormente a sentirsi».
Di più.

I DOCUMENTI. E 14 CASE
«Quando siamo arrivati qui eravamo abbastanza paurosi. Se sbagliavamo a parlare… abbiamo cambiato qualcosa come 14 case, viaggiato attraverso 4 Stati. Ho sempre i miei documenti originali, pure lei, il bambino. Non ho documenti falsi o altro nome o foto. Ho il mio, fatto in Italia. Non è una cosa semplice. Tutti i giorni ti ricordi della situazione in cui sei dentro. Cambi casa per sentirti sicuro dopo un periodo perché non si sa mai, magari dopo una telefonata in Italia o perché hai ricevuto la visita di qualche conoscente. Ti chiedi: e se erano controllati? E poi ti guardi intorno. Parli con uno al supermercato e anche se parli la lingua si capisce che sei straniero. E allora iniziano le solite domande: perché sei qui, da quanto, dove vai… e devi inventarti una storia plausibile. Io dicevo che avendo già girato tre Stati in Sudamerica, avevo scelto il Brasile perché ci piaceva il clima, il posto, la gente… facevo complimenti sul luogo. Tanto è pieno di italiani che cercano lavoro. Anche se io, ovviamente, gli italiani ho sempre cercato di evitarli».

Perché ha deciso di rientrare?
«Vorrei mettere la parola fine a questa storia, perché le persone che mi vogliono bene, i parenti, la mia compagna smettano di subire quest'agonia, sempre in giro a chiedersi se andrà bene o male. Non sono fatto per fare il latitante, non sono preparato. Chiederemo ancora la revisione e se va male non so più che santi chiamare. Però sento la sofferenza delle persone che mi stanno accanto. E non voglio sopprimere la libertà altrui per avere la mia. Sono innocente e anche mio padre si è sempre dichiarato così… ci è capitata addosso questa cosa, ma è meglio mettermi davanti ad un plotone di esecuzione piuttosto che questa agonia».

L'aspettano 22 anni di prigione se la revisione non la riconoscerà innocente. Cosa dirà a suo figlio?
«Guardi, mio figlio adesso ha tre anni. Faremo il possibile per tenerlo all'oscuro finché non avrà l'età per poter comprendere. Anche se la mia compagna vorrebbe dirglielo subito. Ma ribalto la domanda: come faccio a crescere un figlio qui? Non posso mentirgli su qualsiasi cosa, ci manca la libertà. Io davvero non lo so come riescano a vivere così i latitanti».

LATITANTI DIVERSI: TIRONI E CESARE BATTISTI
Beh, proprio in Brasile c'è Cesare Battisti.
«Della sua storia qui ne hanno parlato parecchio».
Anche lui si proclama innocente, ma resta lì.
«Io prima non sapevo nemmeno della sua esistenza. Qui ne hanno parlato i telegiornali, ha anche sfilato al Carnevale di Rio. Ma lui è dentro una situazione molto più grande della mia. Mi chiedo come abbia fatto a sopravvivere. Ma se è rimasto in Brasile, così pensa la gente del posto, sicuramente avrà avuto aiuti da qualche parte… se no come fai? Non conosci nessuno. Avrà le spalle ben coperte. Ma forse, come ha amici che lo hanno aiutato a restare, avrà molti nemici se rientra in Italia».
Si diceva che lei sarebbe rientrato mesi fa. Perché non lo ha fatto?
«Non certo perché ci ho ripensato. Avevo bisogno di risolvere un problema: mio figlio per uscire dal Brasile ha bisogno della mia firma sul passaporto, apposto in questura. Ma se io vado in questura, mi fermano lì. E lui in Italia non arriva più. Spero di risolvere tutto attraverso il consolato».
È passato qualche tempo da quando ho sentito l'ultima volta Flavio Tironi. Non so se davvero oggi si costituirà. Ed è impossibile dire se qualcuno di noi al suo posto lo farebbe. La cronaca nera è piena di casi che si ripetono, simili per moventi, modus operandi, armi usate, scena del crimine, tipo di depistaggio. In questo periodo ho cercato ovunque un altro caso in Italia e nel mondo in cui padre e figlio si mettessero d'accordo per uccidere la rispettiva moglie e madre. Non ne ho trovati.

Edoardo Montolli
da www.lindipendenza.com

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