Una vita criminale tra alti e bassi
La strage di Dalmine quand'era 26enne

Il tragitto quotidiano che Renato Vallanzasca percorre tra il carcere milanese e Sarnico passa inevitabilmente davanti al casello dell'A4 di Dalmine, il luogo in cui, il 6 febbraio 1977, lui e la sua banda della Comasina uccisero gli agenti della polizia stradale Luigi D'Andrea e Renato Barborini durante un conflitto a fuoco.

Il tragitto quotidiano che Renato Vallanzasca percorre tra il carcere milanese e Sarnico passa inevitabilmente davanti al casello dell'A4 di Dalmine, il luogo in cui, il 6 febbraio 1977, lui e la sua banda della Comasina uccisero gli agenti della polizia stradale Luigi D'Andrea e Renato Barborini durante un conflitto a fuoco.

La fine degli Anni Settanta rappresentò per la banda del «bel René», nomignolo da lui sempre detestato, l'apice di una violenza che, da Milano, terrorizzò l'Italia intera. Pochi giorni prima dell'omicidio dei due agenti della Stradale a Dalmine la banda della Comasina aveva infatti concluso il sequestro di Emanuela Trapani, figlia di un imprenditore milanese che venne tenuta in ostaggio di Vallanzasca per un mese e mezzo, fino alla liberazione dopo il pagamento di un riscatto di un miliardo di lire. Di fronte al posto di blocco degli agenti D'Andrea e Barborini, Vallanzasca e i complici non esitarono ad aprire il fuoco, freddando entrambi i poliziotti.

Un episodio che destò grande clamore nell'opinione pubblica e che fece terra bruciata attorno alla banda della Comasina e attorno al suo capo indiscusso, l'allora ventiseienne Vallanzasca. Passarono soltanto sei giorni dal suo arresto, il secondo dopo quello – che è negli annali della cronaca nera – del 1972, quando a mettere le manette ai polsi del criminale milanese fu l'allora capo della Squadra mobile di Milano Achille Serra. Il ventunenne Vallanzasca si sentiva invincibile. Anzi, ricco e invincibile. Con la sua banda aveva già racimolato tanti soldi con rapine che avevano terrorizzato la Milano bene dell'epoca. Auto di lusso, belle donne, capi firmati e orologi di lusso, come quello che, il 28 febbraio '72, si slacciò e buttó sul tavolo di casa sua con tono di sfida alla polizia: «Se mi incastri, diventa tuo», disse a Serra. Poco dopo la polizia, perquisendo la casa, trovò la lista degli stipendi dei dipendenti di un supermercato che la banda della Comasina aveva da poco rapinato. Così Vallanzasca finì per la prima volta in manette, trascorrendo i quattro anni e mezzo successivi in oltre trenta carceri italiane, continuamente trasferito per via del suo comportamento tutt'altro che collaborativo.

Evaso – e siamo al '76 – Vallanzasca ricostituisce in poco tempo la sua banda, dedicandosi anche ai sequestri di persona, tra cui appunto quello della Trapani che precede di pochi giorni il massacro di Dalmine. È del 15 febbraio '77 il secondo arresto del bandito. Alti e bassi nella sua carriera criminale che rispecchiano, per esempio, i rapporti con il nemico-amico Francis Turatello, forse figlio naturale di Frank Coppola e a capo della banda «concorrente» a quella della Comasina (ma entrambe talmente efferate da preoccupare la ligèra, la vecchia mala milanese), salvo poi essere chiamato da Vallanzasca come «compare d'anello» al suo (primo) matrimonio con Giuliana Brusa nel '79 e poi ucciso in carcere, due anni dopo, da mandanti ignoti. Vallanzasca – che deve scontare quasi 300 anni di carcere – non ha mai perdonato i traditori.

Emblematico l'omicidio di Massimo Loi, ex componente della sua banda deciso a cambiar vita, assassinato nell'81 a Novara durante una rivolta carceraria. Sembra che ad ammazzarlo sia stato proprio Vallanzasca, che poi lo decapitò per giocare a palla con la sua testa. Ma su questo episodio anche le biografie del criminale forniscono versioni differenti.

Fabio Conti

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