L'inferno delle carceri del Malawi
Una prof di Casirate dà speranza

Andare «oltre i margini» nell'inferno delle carceri del Malawi. C'è tutta la voglia di riscatto e la dignità orgogliosa di un'umanità reclusa nella mostra organizzata a Treviglio, nella sala Crociera del Centro civico culturale di via Bicetti.

Andare «oltre i margini» nell'inferno delle carceri del Malawi. C'è tutta la voglia di riscatto e la dignità orgogliosa di un'umanità reclusa nella mostra organizzata a Treviglio, nella sala Crociera del Centro civico culturale di via Bicetti. L'esposizione, che gode del patrocinio dell'assessorato alla Cultura del Comune e di Sanmarinoforthechildren.org, verrà inaugurata venerdì alle 18 in Auditorium, quando verrà presentato l'impegno in terra africana di Patrizia Lavaselli, docente di Educazione artistica di Casirate, da anni impegnata a fianco delle recluse del carcere di massima sicurezza di Zomba, in Malawi.

«Il carcere - spiega Patrizia - fu costruito un secolo fa per accogliere un massimo di 200 prigionieri. Oggi "accoglie" 2.300 persone che vivono al limite della sopravvivenza. Qui la redenzione dalla pena è una pura illusione: è una "fabbrica della sofferenza", dove la parola diritto non esiste. Sentenze che non arrivano e sovraffollamento non colpiscono soltanto le detenute, ma anche e soprattutto i bambini che devono stare con le loro mamme in quell'inferno. E per loro non c'è nessun trattamento di favore». I piccoli possono stare con la loro mamma fino ai cinque anni d'età e poi, se la pena è maggiore (o addirittura a vita), vengono allontanati. Spesso nascono in carcere e la loro visione della vita inizia dalle pareti di mattoni circondate da filo spinato e tracce di cielo. La stessa visione che campeggia nel manifesto-icona della mostra.

«I piccoli mangiano una sorta di polenta fatta con farina mista a terra, la carne (comunque immangiabile) è un miraggio che arriva due volte l'anno. Dormono ammassati in fetide camere, chiuse dal pomeriggio fino all'alba; senza bagno, devono utilizzare dei barattoli per i loro bisogni. I muri e i materassi sono marci, infestati di scabbia e pidocchi. Di notte i topi camminano liberamente anche sui loro corpi. La situazione igienica è spaventosa, per non dire dei soprusi delle guardie». Un contesto in cui non è difficile assistere a qualcuno che «scoppia»: in questo caso la cura più utilizzata sono le manette ai polsi e piedi. «Hanno sbagliato - aggiunge Patrizia -, ma stanno pagando troppo cari i loro errori. La noia e l'inedia sono le peggiori nemiche: uccidono, alienano, portano alla pazzia o depressione. Nonostante tutto, hanno voglia di studiare e imparare. Il contatto diretto con loro, il fornire materiale pittorico dando la possibilità di esprimersi ha permesso loro di scoprire le proprie potenzialità, l'identità, o semplicemente il divertimento per un'attività mai svolta nella loro vita». Patrizia, con la sua chioma bionda e il suo sorriso sincero, non si è fermata a protestare, a «scoppiare» con le donne di Zomba.

Ha raccolto, stoffa, pennelli, colori e li ha portati lì, perché in quel buco nero arrivassero i colori dell'arcobaleno. «Non è la mia storia che conta e nemmeno quelle a volte allucinanti delle singole detenute. Conta che io, loro e tutti noi siamo semplicemente esseri umani, per i quali l'affetto e il calore non sono optional, ma elementi vitali. Abbiamo colorato insieme, si sono raccontate, hanno ballato, cantato, recitato, giocato. L'arte è un mezzo che permette la comunicazione su differenti livelli e le protagoniste di questo laboratorio espressivo oltre ad essere state gratificate si sono ricordate di esistere». Quell'arcobaleno ha fatto sì che venisse allestita una scuola materna per accogliere i piccoli «ospiti» delle carceri affinché possano evadere dalle mura e vivere almeno una parte di giornata normale.

«Alla fine all'asilo ci vanno anche i figli delle guardie. L'abbiamo chiamato Tikondane: in lingua chicewa significa "amiamoci"». Il progetto di solidarietà ad esso legato (e per il quale viene organizzata la mostra) si chiama «Happy Island», un'«isola felice» dove giocare, imparare e avere un'alimentazione corretta. Dall'Italia la catena della solidarietà si è allungata. «Abbiamo fornito arredi, materiale didattico, garantito la formazione alle insegnanti. Ora dobbiamo garantire continuità al progetto». In Malawi, a seguire il progetto, c'è per i monfortani padre Piergiorgio Gamba, chairman del Prison Felloship Malawi. Come membro dell'Ispettorato delle prigioni partecipa alla stesura del Rapporto annuale per il Parlamento. «Prison Felloship Malawi - conclude Patrizia - si pone come organizzazione della società civile e con le sue azioni intende dare una possibilità di crescita e giustizia sociale nelle carceri». La mostra resterà aperta fino al 30 dicembre, tutti i giorni dalle 14 alle 18. Info: [email protected].

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