Il vescovo Beschi ai bergamaschi:
«Non sia un Natale rassegnato»

di Giorgio Gandola
Piazza Vecchia è deserta di primo mattino. La neve scricchiola sotto le scarpe, pinnacoli di fumo, lampi da Bruegel il Vecchio. Piazza Vecchia è deserta ma popolata di volti, anonimi e noti.

Piazza Vecchia è deserta di primo mattino. La neve scricchiola sotto le scarpe, pinnacoli di fumo, lampi da Bruegel il Vecchio. Piazza Vecchia è deserta ma popolata di volti, anonimi e noti: Maddalena e Luca (studenti), Francesco Nullo, Torquato Tasso, totem per Bergamo Capitale della cultura. C'è anche Giacomo Manzù col cappello di paglia.

Persone e fantasmi al centro di una sfida. Una squadra. Dopo gli anni dell'individualismo e dell'uomo solo al comando è il segnale di qualcosa che cambia. «Bene, è un processo positivo che va nella direzione del valore irriducibile di ogni persona. L'uomo non è mai il mezzo, è il fine». Quegli uomini e quelle donne che rappresentano il passato e il futuro della città, il loro stare insieme per un nobile obiettivo dentro la piazza eterna, sono una metafora cara al vescovo Francesco Beschi.

La crisi sta incrinando l'individualismo di stile americano, alla John Wayne, per rilanciare il valore della comunità. Ne coglie i segnali?
«L'individualismo è stato un processo di reazione profonda a quei fenomeni di spersonalizzazione dell'uomo che hanno caratterizzato il nostro passato, anche in forme molto drammatiche nel Novecento. La razza, la classe. La centralità della persona è una conquista relativamente nuova, ma negli ultimi vent'anni si è andati oltre. Paradossalmente si è arrivati a valorizzare relazioni strumentali dal consumo immediato per la realizzazione di "me stesso". Ed ecco l'individualismo esasperato. Credo che la stagione di crisi sia il frutto dell'estremizzazione di questa visione».

Il percorso per uscirne sembra individuabile. La paura porta le persone ad aggregarsi, ma la paura è un cattivo collante.
«È necessario tornare al valore di un legame che non diminuisca la libertà dell'uomo, ma la restituisca al suo significato più profondo. Il problema è che stiamo ancora vivendo dentro l'orizzonte individualista descritto sopra. Abbiamo bisogno di solidarietà vera. Non solo quella istituzionale che proviene da tanti soggetti e dalla comunità cristiana. Abbiamo bisogno di rompere i gusci nei quali ci siamo rinchiusi e finalmente tornare a vedere i volti delle persone».

Dopo anni di benessere, l'attitudine al sacrificio è diminuita. E il «rimboccarsi le maniche» sembra una frase fuori dal tempo. Mio nonno lavorava in fabbrica alla Falck e alla fine del turno in fonderia faceva sette chilometri in bicicletta per occuparsi della vigna e delle galline. Diceva: è quello che voi chiamate hobby.
«Mio nonno ferroviere si "rilassava" facendo il contadino e mio nonno contadino facendo il falegname. Rispetto a quei tempi è cambiata l'aria che respiriamo, e non solo perché è più inquinata. L'insieme della vita si è arricchito non solo di beni, ma è aumentata la complessità del vivere. Ora dobbiamo fare i conti con maggiori fragilità, maggiori solitudini che non appaiono, ma nelle quali molte persone si ritrovano. Oggi non è possibile semplificare la complessità del vivere con operazioni magiche. Dobbiamo farlo con relazioni consolidate e significative dentro le quali la persona possa abitare e anche riposare».

Si parla molto di giovani senza rendersi conto che il loro futuro coincide col futuro della nostra società. Saremo capaci di coinvolgerli e di farci trainare da loro o finiranno per fare i maggiordomi agli ingegneri indiani?
«Anche qui a Bergamo, ai nostri ragazzi dobbiamo dire più spesso che gli vogliamo bene e che siamo disposti a sacrificare noi stessi per loro. Per loro dobbiamo essere pronti a fare dei passi indietro, a lasciare loro spazi, a creare condizioni perché possano occuparli, superando le legittime paure. Dobbiamo avere reale fiducia in loro, nonostante i loro sbagli. Non è semplice, perché in questi anni abbiamo pensato a noi stessi. E ai nostri figli ci siamo limitati a fare dei regali».

Bergamo, Città Alta, la sua vita da pastore. Le ho sentito dire: «Quando oltrepasso l'Oglio tornando da Brescia mi sento a casa». Si possono amare due città diverse?
«Sono profondamente legato alla città in cui sono nato e cresciuto. Poi ho imparato a conoscere e a volere bene al territorio vastissimo che è la provincia di Brescia. Se la parola non fosse eccessiva, mi sono sentito incarnato in quella terra. Mi sono sempre ritenuto un provinciale legato a quegli orizzonti, mai mi sarei immaginato di partire. Mi piace viaggiare, ma mi piace tornare a casa. Poi un giorno sono partito per una chiamata. Ho fatto pochissima strada, ma proprio non conoscevo Bergamo; com'è vero che non si conoscono i vicini di casa. Sono rimasto sorpreso e assolutamente coinvolto da un'accoglienza che è difficile descrivere. Cordialità, stima, vicinanza, fiducia, riconoscimento per un servizio. Sono stato messo nella condizione migliore che si potesse immaginare per conoscere questa comunità. Ora colgo l'essenza di un legame enorme e quando varco l'Oglio mi sento a casa».

Monsignor Beschi, lei ha affascinato i bergamaschi con la presenza e con la parola, valori in ribasso nel mondo multimediale.
«La diocesi crede nella multimedialità, abbiamo inaugurato un sito web di ultima generazione. Ma l'ufficio prevede l'esercizio della parola. Mi ci ritrovo, anche perché se sbaglio una parola posso rimediare. Mi sono diplomato al Conservatorio con due Capricci di Paganini, una scalata impervia per un amante del violino. La musica è più crudele della parola: una nota sbagliata è sbagliata per sempre».

Lombardia, molto più di una regione geografica. È la patria di un cattolicesimo speciale, austero e pregno di valori, dal Manzoni al cardinal Martini. Eppure sotto il cielo di Lombardia la politica ha abbassato la guardia, gli scandali avvelenano i pozzi. Felicità è il cielo stellato sopra di me e la legge morale dentro di me, diceva Kant. Ci siamo persi qualche puntata?
«Il cattolicesimo lombardo ha una storia che arriva da molto lontano e un'originalità rispetto al cattolicesimo italiano ed europeo. Qui la fede è generata da valori capaci di dare forma a realtà concrete: la considerazione delle persone, l'importanza della famiglia, la capacità di assumersi responsabilità in prima persona, imprese di solidarietà alte, imprese economiche evolute. Tutto alimentato da un humus che ha nella visione cristiana l'elemento fondamentale. Detto questo, è mio dovere distinguere le vicende personali da alcuni fenomeni profondamente preoccupanti che hanno segnato la vita pubblica, i cui riflessi avvertiamo anche a Bergamo. Molto importante è discernere le responsabilità personali, differenziandole da autentiche derive che il potere politico – ma non solo – ha assecondato, cavalcato, giustificato».

Ora siamo alla resa dei conti e il cittadino ha dato il responso più definitivo. Condanna.
«Il potere che alimenta se stesso inevitabilmente determina le condizioni della sua fine. Così è avvenuto sempre nella storia, accadde così anche alla Democrazia cristiana. Ma tengo a sottolineare che noi abbiamo il dovere di salvaguardare la persona nella sua integrità, nella sua possibilità di riscatto. Anche se i suoi errori non devono essere giustificati, né diventare pretesto per giustificare altri errori».

La parola dell'anno è crisi. Come si percepisce in Bolivia, dove la diocesi ha festeggiato 50 anni di missione e dove i parametri della vita sono molto diversi che da noi?
«I fili che legano Bergamo alla Bolivia sono numerosi e consistenti. È importante la presenza di tanti boliviani in città, in provincia e nelle nostre parrocchie. Della Bolivia parliamo molto noi, ma nel mondo se ne parla molto meno. La Chiesa di Bergamo ama la Bolivia, che purtroppo è fra i Paesi più poveri dell'America del Sud. Una povertà di mezzi, ma una grande ricchezza nell'umanità, nella capacità di guardare l'orizzonte da altitudini che stordiscono. Sempre con il sorriso».

Il 2013 sarà l'anno di Papa Giovanni. Una riscoperta, il ritorno a casa di un Papa che per primo seppe parlare al cuore della gente comune.
«Papa Giovanni è una figura con una capacità di comunicare impressionante. E cosa comunica? Una speranza più forte di tutte le prove che la Storia ci riserva. Ci comunica la necessità di coltivare il valore della pace e anche una bontà reale, capace di trasformare le cose e non solo di addolcirle. L'icona del Papa buono è efficacissima perché in termini semplici lo rappresenta. A Roma è ogni volta uno stupore vedere attorno alla sua tomba una folla di fedeli, nessun Papa ha un'audience simile. E i padri, davanti alle spoglie, raccontano ai figli chi fosse quell'uomo, figlio di questa terra, capace a distanza di mezzo secolo di colpire un'immaginazione spirituale di cui tanto abbiamo bisogno. Ma non dobbiamo sottovalutare l'icona del Papa del Concilio: lui lo apre, Paolo VI lo chiude. Un dono alla Chiesa e al mondo».

L'invito per Benedetto XVI è partito. In giugno arriva il Papa a Bergamo?
«L'invito e il nostro interessamento sono molto sentiti e rispettosi. Per il 2013 il Papa non ha programmato alcun viaggio, se non quello a Rio de Janeiro per la Giornata mondiale della Gioventù. Ho assicurato il Vaticano che, in qualsiasi momento decidesse di venire, noi saremmo pronti ad accoglierlo».

C'è un tema di attualità che attraversa l'Italia e rischia di rinfocolare l'anticlericalismo: l'Imu sui beni della Chiesa. Come, quando e a quale prezzo?
«Il criterio al quale mi ispiro è semplice: noi dobbiamo esercitare le attività commerciali nel modo più trasparente, sia sotto il profilo legale, sia sotto quello morale. E la Chiesa deve risponderne nel modo in cui ne rispondono gli altri soggetti. Diverso il discorso per la Chiesa presente con attività educative, sociali, caratteristiche del mondo ecclesiale, che non possono essere riportate a questi criteri. Non lo dico nel nome di un privilegio, ma nel nome di quella edificazione di Stato che la Costituzione ha prospettato. La Carta prevede il ruolo per lo Stato, per il mercato e prevede un riconoscimento per corpi intermedi come la famiglia e le libere aggregazioni che non tendono a guadagni e profitti, ma rappresentano il patrimonio più prezioso di una nazione. Negando tutto ciò viene meno il riconoscimento non solo delle opere della Chiesa, ma di quella realtà fatta di associazioni e fondazioni che sono una ricchezza enorme per la vita del Paese».

Bergamo è una città multietnica e multiculturale, dalle tante sfaccettature. E non tutte mostrano il volto della fede. C'è spazio per il dialogo?
«Oggi più di ieri la società bergamasca non si riconosce tutta nella Chiesa. E questa è una ricchezza, che si concretizza proprio nel dialogo fra ispirazioni ed esperienze diverse. Dico che la Chiesa deve porsi al servizio di questo dialogo».

Siamo dentro un Natale meno consumistico, forse più intimo. Monsignore, è possibile che nelle curve più aspre della crisi si possa vedere l'uomo che rinasce?
«Mi auguro che non sia un Natale rassegnato, che i bergamaschi non intendano subire ciò che sta accadendo. La sofferenza di molti - e penso a coloro che hanno perso il lavoro - può sfociare in grandi solitudini. Ma c'è altrettanto spazio per incontri inaspettati. Dio che diventa uomo è il segno sorprendente di questa possibilità di incontro. Credo che sia importante oggi andare alla grotta della nostra intelligenza, del nostro cuore; andare lì dove sono le sorgenti della nostra esistenza, che spesso dimentichiamo perché ci sembra che l'acqua arrivi in automatico. In questa grotta, nel giorno di Natale, viviamo la meraviglia di un Dio che sta tutto dalla parte degli uomini. E in questo c'è la possibilità di ogni ricominciamento».

Uscendo, nell'anticamera dell'appartamento del vescovo, noto su una mensola un cero non ancora acceso. Davanti c'è un libro dal titolo «Amen, paesaggi dello spirito». È aperto su una frase di Ernest Renan: «La storia intera risulta essere incomprensibile senza Gesù Cristo». Nel nostro piccolo, mentre le scarpe scricchiolano di nuovo sulla neve gelata, abbiamo una certezza: anche quella di Bergamo.

Giorgio Gandola

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