Cortenuova, il fratello della vittima
testimone del caso della Panda nera

Bisogna andare indietro nel tempo, ma alla fine i nomi riaffiorano: Mohamed Ammerti, il fratello di Ahmed, il barista ucciso l'altra notte a Cortenuova nel suo locale, fu uno dei testimoni dell'accusa nell'inchiesta sulla cosiddetta banda della Panda nera.

Bisogna andare indietro nel tempo, scorrere le deposizioni processuali, riascoltare le testimonianze, ma alla fine i nomi affiorano, o meglio, riaffiorano: Mohamed Ammerti, il fratello di Ahmed, il barista ucciso l'altra notte a Cortenuova nel suo locale, fu uno dei testimoni dell'accusa nell'inchiesta sulla cosiddetta banda della Panda nera.

La banda fu soprannominata così perché la maggior parte delle volte i suoi componenti viaggiavano su una Panda di colore nero. Non facevano furti o rapine e non erano delinquenti abituali. Erano perlopiù carabinieri e agenti della polizia locale e, secondo l'accusa, avevano messo insieme una vera e propria organizzazione volta a terrorizzare e vessare piccoli spacciatori, ma anche tossicodipendenti o persone del tutto estranee al mondo della devianza ma che avevano il solo torto di trovarsi nel posto sbagliato al momento sbagliato.

Le accuse all'epoca, era il 2007, fecero molto scalpore, saltarono diverse teste, fra cui quella dell'ex comandante della compagnia dei carabinieri di Treviglio, Massimo Pani, l'imputato eccellente. Ma tre anni dopo ecco il colpo di scena: a febbraio 2011 la Cassazione annulla tutto e l'anno scorso, a giugno, la Corte d'appello assolve Pani e riduce sensibilmente le condanne (e il peso delle imputazioni) nei confronti degli altri. Niente associazione per delinquere e niente raid punitivi, insomma. Solo, a vario titolo, qualche episodio minore di peculato, ricettazione e lesioni, ma nulla a che vedere con quello con il castello accusatorio iniziale.

Ammerti rappresentò qualcosa di più di un testimone. Fu lui, ad esempio, ad accompagnare in Procura uno dei testimoni (Mohamed El Hamraoui, che denunciò di aver preso un ceffone durante un controllo che gli lesionò un timpano, ndr) perché, raccontò il teste stesso, «lui (Mohamed Ammarti) aveva sentito quello che mi era successo ed era venuto a trovarmi dicendomi che era successa la stessa cosa al fratello».

E fu sempre lui, secondo i rilievi della difesa di uno degli imputati, ad essere «utilizzato» addirittura come interprete dalla polizia giudiziaria per assumere sommarie informazioni da una connazionale. Insomma, un ruolo piuttosto attivo, nel quale il fratello Ahmed appare invece più in ombra, anche se, come ha confermato Mohamed domenica dopo l'omicidio, i due erano molto legati, sia affettivamente che nel lavoro. Come Ahmed, anche Mohamed, di due anni più giovane, è da diversi anni in Italia e gestisce un locale, proprio come il fratello. Con questo ulteriore scenario, il puzzle intorno all'omicidio di Ahmed Ammerti si complica ulteriormente. Con che tipo di persone erano in contatto i due fratelli? Avevano ragione i carabinieri di Calcio, quando avevano preso di mira il loro locale perché mal frequentato (anche se per Mohamed si trattò di una sorta di persecuzione)? Oppure si è trattato solo di un caso, di un passo falso di Ahmed, di uno sbaglio o di una reazione di troppo che che gli sono costati la vita?

© RIPRODUZIONE RISERVATA