Ha scoperto le 4 eliche del DNA:
«Sento vicino il dolore dei malati»

di Alberto Ceresoli
«Volevo occuparmi di ricerca sul cancro perchè ho sentito vicino la sofferenza di amici che avevano perso qualcuno di caro o che stavano combattendo loro stessi questa malattia». Nasce da qui l'interesse di Giulia Biffi verso i tumori.

di Alberto Ceresoli
«Volevo occuparmi di ricerca sul cancro perchè ho sentito vicino la sofferenza di amici che avevano perso qualcuno di caro o che stavano combattendo loro stessi questa malattia». Nasce da qui - dalla «compassione» di un dolore che circonda la nostra umanità - l'interesse di Giulia Biffi verso i tumori  o, meglio, verso una strada per distruggerli.

Lei - 26enne ricercatrice bergamasca sulle prime pagine di tutti i giornali per aver scoperto le 4 eliche del DNA umano, le «G quadruplex»  - dice di essere solo agli inizi, eppure i risultati dei suoi studi sembrano aprire scenari rivoluzionari nella lotta contro le degenerazioni tumorali.

Le agenzie dicono che la sua scoperta apre a nuove cure per il cancro: in che modo? E quanto tempo dovrà verosimilmente passare per avere dei risultati?
«I giornali - risponde da Parigi, dove sta effettuando alcuni studi - stanno esagerando i risultati della mia ricerca. La scoperta di queste strutture è solo l'inizio e prima di arrivare a qualsiasi conclusione dobbiamo vedere se abbiano o meno una funzione. Quello che sappiamo è che sembra si formino più frequentemente durante la replicazione del DNA e quindi molecole che legano queste strutture potrebbero avere un effetto più significativo in cellule che replicano continuamente, come quelle tumorali».

Cos'ha scoperto esattamente?
«Questo lavoro è solo il completamento di anni di lavoro del mio laboratorio e non solo. Per anni ci si è occupati di queste strutture cuboidali del DNA, dette G-quadruplex che si formavano molto stabilmente in provetta in condizioni fisiologiche. Per questo motivo, da tempo si era ipotizzato che si potessero formare in cellula e alcune prove indirette suggerivano questa possibilità. Io ho ingegnerizzato un anticorpo che legasse queste strutture e l'ho utilizzato - in una tecnica detta immunofluorescenza - in cellule umane. Così è stato possibile visualizzare queste strutture in cellula».

Quanto sono durate le sue ricerche?
«Un anno e mezzo circa»

Che cosa ha significato per lei questa scoperta, a 60 anni dalla scoperta del Dna?
«In realtà chi conosce i numerosissimi studi su questi G-quadruplex non si dovrebbe meravigliare così tanto come è successo in questi giorni. E io rientro in questa categoria di persone. E soprattutto, lo ripeto, voglio sottolineare che questa scoperta apre a un ventaglio di possibilità, ma è ancora tutta da verificare».

Qual è stata l'intuizione che l'ha guidata in questa ricerca?
«In realtà questo anticorpo è stato il risultato non previsto di un altro lavoro di cui mi sto occupando. L'intuizione è stata quella di riconoscere che questo anticorpo apriva a un altro tipo di esperimenti, quelli che poi hanno portato al lavoro pubblicato».

Mi racconta qualcosa della sua vita bergamasca?
«Ho 26 anni, una sorella maggiore anche lei ricercatrice - ma in Italia e quindi costretta a scontrarsi con una realtà ben diversa dalla mia -, due genitori che ci hanno sempre supportato e stimolato a dare il meglio e a coltivare le nostre passioni. Ho studiato al Liceo Scientifico Mascheroni, più un "Classico" senza Greco come dico sempre. Ho avuto due ottime professoresse di Latino e Filosofia, a cui sono ancora molto legata.

Cos'ha fatto quando se ne è andata da Bergamo?
«Sono andata a Pavia per l'Università. E poi a Cambridge per il dottorato».

Come mai all'estero?
«Ho avuto la possibilità di fare un esperienza di due mesi in un laboratorio di Cambridge - quello dove sto facendo il dottorato ora - durante la laurea specialistica, e ho voluto tornare a lavorare in quella realtà di ricerca».

Quanta fatica e quante rinunce Le sono costate riuscire ad imporsi all'estero in un campo tanto complesso e competitivo?
«"Imporsi all estero" mi sembra una vera esagerazione. Le rinunce che ho fatto e i weekend passati in laboratorio non li ho certo fatti per pubblicare questo paper. Cercavo semplicemente di fare del mio meglio e per dare un piccolo contributo».

Torna spesso a Bergamo?
«Non spesso come vorrei. Per le feste principali».

Che cosa Le manca di più?
«Ovviamente i miei amici e la famiglia. Soprattutto mio nipote!».

Ora è in Francia e poi tornerà in Inghilterra per continuare a lavorare lì: è già tutto deciso? Impossibile tornare in Italia per fare ricerca?
«Non credo sia impossibile tornare. Ma non è nei miei progetti».

Come ha reagito il mondo accademico alla sua scoperta?
«C'è interesse e voglia di scoprire di più».

E a casa, invece?
«Come hanno reagito? Mi scrivono che sono orgogliosi, ma penso che siano soprattutto frastornati. Come lo sono io».

A chi dedica questo successo?
«Una dedica? Non saprei. Se devo farne una, allora direi che la dedico a quei ricercatori che hanno studiato queste strutture per anni e che non hanno avuto la fortuna che ho avuto io».

Alberto Ceresoli

© RIPRODUZIONE RISERVATA