Yara e la pista di Rovetta
Giallo sull'orfano scomparso

Voci su un ragazzino che, uscito chissà perché dalla Casa dell'orfano di monsignor Antonietti nella Selva di Clusone, sarebbe a un certo punto comparso a Rovetta, accolto per qualche tempo dalla parrocchia.

Voci. Come tante che si fanno in questi giorni difficili qui sull'Altopiano. Voci che corrono di bocca in bocca ma che ancora non sarebbero giunte agli inquirenti. Voci su un ragazzino che, uscito chissà perché dalla Casa dell'orfano di monsignor Antonietti nella Selva di Clusone, sarebbe a un certo punto comparso a Rovetta, accolto per qualche tempo dalla parrocchia allora guidata da don Gaetano Boffelli, parroco per 27 anni fino al 2006, poi morto nel 2012.

Un ragazzino tra i 14 e 16 anni, uno che faceva tribulare. E alla Casa dell'orfano il cuore grande del fondatore era aperto a tutti i bisognosi, ma la disciplina era fondamentale per far rigar dritti i 22.000 orfani - maschi e femmine insieme, caso unico allora in Italia - passati nell'istituzione di Ponte Selva. Così ci sarebbe ancora chi ricorda quel ragazzino, che all'improvviso com'era arrivato, scomparve dopo un po' da Rovetta. La testimonianza finisce qui e nulla si sa della sorte di quell'adolescente difficile.

I ricordi di Rosa
Rosa Gatti, 82 anni, per 40 è stata la perpetua di don Gaetano e lei non ricorda nessun caso del genere. «Però - racconta - don Gaetano non era un chiacchierone. Era buonissimo e se qualcuno aveva bisogno lui si faceva in quattro, ma io di questa storia non so nulla, non mi viene in mente niente». Morto don Gaetano, così come monsignor Antonietti e le tre signorine che fin dagli inizi, era il 1924, avevano aiutato il fondatore nella gestione della Casa di Ponte Selva. «Tina, l'infermiera. Una seconda di Cene di cui non ricordo il nome, e Rosina che teneva i registri - racconta uno dei presidenti del Consiglio di amministrazione dell'ente -. Erano loro la memoria storica». Se il ragazzino di queste voci fosse mai esistito e se fosse il figlio illegittimo di Giuseppe Guerinoni e di una donna dall'identità ancora ignota, loro l'avrebbero saputo ma non possono più parlare. Potrebbero farlo i registri su cui Rosina segnava scrupolosamente.

Che fine hanno fatto? «C'erano due archivi - racconta l'ex presidente -. Uno arrivava fino a metà degli Anni '70 quando poi morì monsignor Antonietti e ormai di orfani non ne arrivavano più. L'altro delle scuole e del collegio venuti dopo. Quest'ultimo credo sia sparito. Ma il primo penso ci sia ancora da qualche parte. Era conservato nella palazzina della direzione, poi non so i registri che fine abbiano fatto, però mi pare anche sia stato consultato qualche tempo fa per degli studi».

La difesa dell'associazione
Mentre è per ora solo una delle tante supposizioni che il killer di Yara, il figlio biologico di Guerinoni sia stato accolto alla Casa dell'orfano, è certo che tanta attenzione da parte di giornali e tivù su questa lodevole istituzione ormai chiusa da decenni sta dando non poco fastidio. «Dobbiamo difendere la memoria della Casa dell'orfano di Ponte Selva: questa non è una struttura dove venivano portati neonati che nessuno voleva, ma un centro per aiutare i bambini in difficoltà, dai sei anni in su, a crescere e a diventare uomini. Come noi».

Era questo il primo pensiero che ieri pomeriggio circolava fra i soci dell'associazione «Ex allievi ed amici di Monsignor Antonietti» che si sono incontrati in fretta e furia a Clusone, al posto del tradizionale ritrovo estivo, per difendere il ruolo svolto dalla Casa dell'orfano a servizio, in pratica, di tutta l'Italia e per tutelare la memoria del suo fondatore. La Casa è finita nell'occhio del ciclone qualche giorno fa perché, secondo alcune ricostruzioni giornalistiche, qui si sarebbe rifugiata e avrebbe partorito la donna che avrebbe dato a Giuseppe Guerinoni un figlio illegittimo, sospettato numero uno oggi di essere l'omicida di Yara Gambirasio. «Siamo pronti a collaborare con gli inquirenti - spiega Luigi Perani, presidente dell'associazione che riunisce tanti degli oltre ventimila orfani che sono passati da qui - ma una cosa lo dobbiamo mettere subito in chiaro: qui i bambini arrivavano dai sei anni in su, per iniziare le scuole elementari. Ogni altra ricostruzione è pura fantasia che rischia di screditare la storia di questa istituzione, che invece ha fatto del bene a tante persone».

Una di queste è proprio lui, che a sette anni, nel 1941, rimase orfano: «Mio papà era di Gandino, mia mamma di Milano. Quando morirono, l'unica persona pronta ad accogliermi fu monsignor Giovanni Antonietti, cappellano militare e allievo di Papa Giovanni XXIII, che nella casa di Ponte Selva voleva aiutare tutti gli orfani di guerra». Era facile ricordare il programma della giornata: sveglia alle 7, Messa alle 7,30, dalle 8 alle 13 scuola, pomeriggio diviso tra compiti e giochi, la sera a letto presto. «Poi ho iniziato a studiare al Sarpi e dopo sono diventato ingegnere. Ho iniziato a lavorare a Busto Arsizio ma ogni fine settimana tornavo quassù, perché questa era la mia casa e questa era la mia famiglia».

La Casa dell'orfano non era solo per gli orfani bergamaschi: «Avevo tra i compagni figli di famiglie povere: erano i comuni a mandarli qua per farli studiare e crescere. Si stava bene: fuori c'era la miseria, qui un piatto di minestra e il pane c'era tutti i giorni. Mi ricordo che durante la seconda guerra mondiale arrivarono i ragazzi di Cassino, la città laziale bombardata, o quelli sfollati da Pola o ancora i figli delle vittime dell'alluvione del Polesine». Di sicuro non c'erano neonati: «Io sono rimasto qui fino al 1961: donne incinta o neonati non ne ho mai visti, e mi risulta che neanche dopo vennero accolti».

Claudia Mangili
Giuseppe Arrighetti

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