I giovani e i disturbi mentali
«Evitano l'aiuto dei genitori»

Non hanno «chiusure» nei confronti della malattia mentale e di chi ne soffre, ma ammettono che se dovessero ritenere di soffrire di qualche disturbo psichico non sarebbero propensi a chiedere aiuto ai familiari più stretti, alla mamma o al papà.

Non hanno «chiusure» nei confronti della malattia mentale e di chi ne soffre, ma ammettono che se dovessero ritenere di soffrire di qualche disturbo psichico non sarebbero propensi a chiedere aiuto ai familiari più stretti, alla mamma o al papà. Piuttosto, si confiderebbero con i loro coetanei, o con un insegnante, o con il parroco. È il quadro sul rapporto tra adolescenti e psichiatria che emerge da una ricerca-lavoro, proprio con la collaborazione pratica di oltre mille studenti delle scuole medie superiori bergamasche, finanziata e progettata dalla Fondazione Varenna (onlus che da 50 anni svolge attività di studio e ricerca sulla salute mentale) che ha visto in campo il Dipartimento di Salute mentale dell'Azienda ospedaliera Papa Giovanni XXIII di Bergamo e l'apporto dell'Ufficio scolastico provinciale, il Comune e l'Asl.

Questionari anonimi
Alla ricerca scientifica hanno partecipato oltre 1.000 studenti di 8 scuole superiori di Bergamo (Caniana, Galli, Pesenti, Mamoli, Stern, Manzù, Mascheroni e Secco Suardo): il lavoro degli esperti era articolato in una serie di incontri (due, in qualche caso anche tre), con le varie classi in cui veniva spiegato il mondo della malattia mentale e si distribuivano questionari ai ragazzi che erano poi liberi di compilarli e restituirli, sempre in modo anonimo. «Su 1.200 questionari ne sono stati restituiti 1.073, un buon esito partecipativo, quindi, a questi incontri. E le risposte che sono state fornite dai ragazzi, commentate dai medici e con le notazioni degli insegnanti delle scuole che hanno partecipato a questi incontri, sono ora parte integrante della terza tappa di questa ricerca-lavoro: ovvero un libro che è la "summa" di questo progetto della Fondazione Varenna - spiega Massimo Rabboni, responsabile del Dipartimento di salute mentale del Papa Giovanni XXIII - . Il libro verrà distribuito a tutte le scuole che hanno partecipato al progetto e verrà utilizzato come momento di approfondimento sul tema della psichiatria e del disagio mentale, ma anche, ed è questa l'anima del progetto, come occasione per lottare contro lo stigma sociale che ancora esiste verso la malattia psichica. Anche tra i ragazzi. Per noi tecnici è stata l'occasione proprio per misurare l'esistenza dello stigma nella fascia più giovane della popolazione della Bergamasca ma anche la difficoltà degli adolescenti ad affrontare eventuali problemi e disturbi di questo genere. Tanto che da questa ricerca è nato poi il progetto di aprire un canale di comunicazione "a misura di giovani" proprio per permettere agli studenti di parlare, confrontarsi, chiedere aiuto in caso di disagio psichico proprio o di altri. Stiamo progettando una pagina Facebook, un gruppo aperto, che ci consenta di entrare in contatto con loro». Lo stigma quindi resiste ancora.

Scarsa conoscenza
«Purtroppo sì. Se per esempio il 48% dei ragazzi che hanno risposto al test ha valutato positivamente il trattamento sanitario obbligatorio per una persona in situazione di malessere acuto, e il 49% riterrebbe utile sollecitare un parente, un amico o un compagno a chiedere aiuto a uno psichiatria, nello stesso tempo il 59% dice di non conoscere qualcuno che è ricorso all'aiuto di uno psichiatra, e alla domanda successiva, "se lo conosce, sa il perché?", il 70% non ha risposto - evidenzia Rabboni - . Se quindi si parla di psichiatria in generale l'atteggiamento è di comprensione e di empatia, ma se poi ai ragazzi si chiede di entrare nello specifico non si sbilanciano. Anche questa è una forma di stigma. Emerge dalla ricerca anche che i ragazzi hanno una conoscenza approssimativa quando non scarsa della malattia mentale, non sanno definire neppure in modo generico le patologie più note, come la depressione, per esempio. O ne danno una definizione molto lontana dalla realtà. Anche questa non conoscenza può essere un humus che alimenta lo stigma. Ma, tra i ragazzi, la non conoscenza e la non percezione di un disturbo in quanto tale deve essere un campanello d'allarme per i rischi in cui possono incorrere».

Droghe e bulimia
Per esempio, spiega Rabboni, i disturbi alimentari vengono indicati nella stragrande maggioranza dei casi quasi come comportamenti inappropriati dal punto di vista della dieta e non come patologie che nascono da una sofferenza interiore. «Altrettanto preoccupante è il fatto che i ragazzi, rispondendo alla domanda sulle dipendenze da sostanze, non avvertano la dipendenza come un problema fornendo esiti al test per oltre il 70% in modo non adeguato - continua il responsabile del Dipartimento di salute mentale - . Così come i disturbi depressivi vengono percepiti come malesseri momentanei dell'umore e non come segnali di una patologia ben più grave. Bisogna intervenire in modo più strutturato dando agli adolescenti possibilità di comunicare bisogni e disturbi: non percepiscono più i genitori né come coppia né come famiglia a cui fare riferimento. Alla domanda "se avesse una situazione di disagio con chi ne parlerebbe" il 22% non risponde, solo il 5% con la madre e l'1% con il padre, mentre il 29% con amici e il 9% con persone fidate (prete o allenatore, per esempio)». Proprio per colmare il «vuoto», il Dipartimento di salute mentale del Papa Giovanni XXIII ha creato un «ponte» tra la Neuropsichiatria infantile (dove dovrebbero essere seguiti i pazienti fino a 18 anni) e l'ambulatorio Varenna per la depressione e i disturbi d'ansia del Papa Giovanni. «Qui abbiamo oltre 1.200 persone in cura, dai 18 anni in su - conclude Rabboni - .Ma abbiamo stilato un protocollo proprio per una presa in carico condivisa dei pazienti non ancora maggiorenni. Sono molti, già a 16 anni, che si ammalano di quella che noi definiamo patologia adulta, e a oggi abbiamo in carico una quarantina di adolescenti».

Carnen Tancredi

© RIPRODUZIONE RISERVATA