L'ultima intervista a L'Eco
nel ricordo di Papa Giovanni

Ha conosciuto (quasi) tutti i pontefici del Novecento e del Terzo Millennio. Con alcuni di loro ha tessuto incontri e relazioni che potrebbero raccontare intere stagioni della Chiesa. Ecco l'ultima intervista con L'Eco di Bergamo di Andreotti. Siamo nel 2008.

Ha conosciuto (quasi) tutti i pontefici del Novecento e del Terzo Millennio. Con alcuni di loro ha tessuto incontri e relazioni che potrebbero raccontare intere stagioni della Chiesa. È, forse, anche custode di segreti e indiscrezioni che hanno segnato alcune pagine di storia vaticana. È uomo schivo e riservato e al tempo stesso aperto e disponibile. Tutti lo chiamano Presidente. È il senatore a vita Giulio Andreotti. Parlare con lui di Papa Giovanni è come tornare a sfogliare un libro di ricordi, forse già aperto in altre occasioni, ma sempre entusiasmante. La memoria è un tumulto di emozioni: gli incontri con il cardinale Roncalli a Venezia, la gita in gondola fra i canali della laguna con il Patriarca, il colloquio riservato con il porporato bergamasco prima che entrasse in Conclave, la premonizione di trovarsi di fronte al futuro pontefice, la confidenza del Concilio Vaticano II fatta da Giovanni XXIII ad Andreotti una ventina di giorni prima dell'annuncio, durante un'udienza privata alla famiglia, sono solamente alcuni dei ricordi che il Presidente ripropone in questa lunga intervista.

Partiamo un po' da lontano. Quando incontrò monsignor Roncalli prima che diventasse Papa?
«Lo avevo conosciuto negli anni Cinquanta, quando era patriarca di Venezia. Lo avevo rivisto a Roma, alla vigilia del Conclave, e lo rividi ulteriormente alcune volte, da Papa. E sempre mi ha colpito la sua capacità di analizzare situazioni, la volontà molto ferma, ma allo stesso tempo il desiderio di convincere. Oltre naturalmente alla sua semplicità e alla sua affabilità nei nostri incontri e durante le udienze private».

Nel Patriarcato di Venezia lei trascorse una lunga giornata con il futuro Papa. Qual era il vero motivo di quella udienza?
«Il cardinale Roncalli sapeva, tramite monsignor Belvederi, suo "vecchio" compagno di studi, che avrei partecipato a un convegno della Democrazia Cristiana a Trento, così mi invitò a fermarmi a Venezia, prima di tornare a Roma. Appena arrivai fece un gesto che mi colpì moltissimo. Volle che io riposassi un poco sul letto che era stato di Pio X. Fui commosso profondamente. Poi parlammo, sostanzialmente, di questioni veneziane che gli stavano a cuore».

Le fece visitare Venezia?
«Mi propose un giro in gondola, in realtà sapeva già dove condurmi. Mi portò alla punta della Salute dove c'era magazzino dismesso dei Monopoli di Stato: un edificio vecchio e fatiscente, abbandonato almeno 40 anni prima. Lo fece aprire dal custode e mi disse che lì avrebbe voluto aprirvi il Seminario minore, perché fosse raggiungibile alle famiglie degli studenti».

Lei ha prima ricordato i nomi di Pio X e di monsignor Belvederi: il primo fu il papa che condannò il modernismo; il secondo uno de «I quattro del Gesù», come recita il titolo di un suo celebre libro. Cosa può aggiungere oggi attorno alla questione del modernismo?
«Con Belvederi, c'erano Buonaiuti, Manaresi e Roncalli: un gruppo di sacerdoti che si era entusiasmato o comunque interessato alla modernità, tutti guardati però con sospetto per le loro letture della Bibbia con chiavi interpretative per così dire nuove. Chiaramente anche Roncalli fu sospettato di modernismo e credo che proprio per questo motivo gli venne negata la cattedra per l'insegnamento di Storia della Chiesa a Roma. In ogni caso Roncalli se la cavò perché fu chiamato dall'allora vescovo di Bergamo, monsignor Radini Tedeschi, a far da suo segretario. Belvederi divenne invece segretario del cardinale Svampa a Bologna. Per Bonaiuti e Manaresi, le cose andarono diversamente».

Un periodo dunque difficile quello che contrapponeva modernismo e antimodernismo.
«Certo, ma i distinguo sono d'obbligo. Alcuni mancarono di disciplina ecclesiastica, "svoltarono" per così dire sotto il profilo teologico, altri invece si mantennero fedeli alla Chiesa e convinti che la cosiddetta "questione romana" fosse un capitolo chiuso, pensavano di dover voltare pagina».

Buonaiuti è stato il personaggio forse più discusso?
«Era, di certo, il più noto del gruppo. A mio avviso rimane una figura eccezionale. Quando il regime fascista chiese il giuramento di fedeltà ai professori universitari, su 1.300 docenti, solo 11 si rifiutarono e perdettero la cattedra: uno di questi era Buonaiuti. Fu ufficialmente "scomunicato", ma verso di lui Giovanni XXIII conservò sempre un atteggiamento di comprensione e affetto. Spero che la posizione di Buonaiuti possa essere rivista, sia pure ora per allora».

Torniamo a Roncalli. Lei lo incontrò alla vigilia del Conclave. Cosa le disse?
«Parlammo ancora una volta dei temi veneziani, del Seminario che voleva aprire agli ex magazzini dei Monopoli. Poi mi chiese perché non parlassi del chiacchiericcio di quei giorni, anche attorno al suo nome o comunque attorno alla sua persona. Io me ne guardai bene. Ma lì per lì maturai la convinzione di trovarmi di fronte al futuro Papa».

Perché ne era così certo? Perché insomma ebbe questa strana premonizione?
«Al termine del colloquio, nel congedarmi, mi disse che ci saremmo rivisti "a Priscilla o altrove". Una evidente allusione».

Con Giovanni XXIII davvero possiamo parlare di un momento di svolta?
«Nelle forme vi fu grande innovazione, ma in un contesto sostanziale assolutamente fermo nella tradizione».

Il 25 gennaio 1959 il Papa di transizione annuncia il Concilio Vaticano II. Come può essersi sedimentata in lui questa idea?
«Il Papa lo disse a me e alla mia famiglia durante una udienza circa venti giorni prima. Non si esprimeva come se si trattasse di una novità straordinaria: sembrava accentuasse la continuità. Non a caso ci disse che vi erano già dei documenti pronti, del materiale dei tempi di Pio XII».

Secondo lei, il pontefice era conscio di cosa stava per innescare convocando il Concilio?
«Ne era perfettamente consapevole e grazie al Concilio aprì al mondo porte e finestre».

Cosa rimane oggi del Concilio voluto da Papa Giovanni?
«L'ardimento nell'impostazione del Concilio è stato provvidenziale proprio perché si stava creando un mondo fisicamente molto più comunicativo. Con il Concilio ha avviato una revisione di carattere un po' storico e culturale, e anche di vecchie interpretazioni. Ma nello stesso tempo è stato di una severità sia teologica sia pastorale veramente unica. Mi sembra che il Papa ritenesse la tradizione come continuità».

Lei come visse quel discorso la sera dell'apertura del Concilio?
«Fui ovviamente anche io sorpreso. Ma quell'accenno ai bambini nelle prime parole pronunciate da Papa Giovanni fu l'enunciazione di un programma stupendo».

Parlando di dialogo interreligioso, di relazioni con i non credenti, quanto contano ancora parole e gesti di Giovanni XXIII?
«Roncalli voleva il dialogo con tutto il mondo. Non accentuava né sottovalutava la complessità».

Il papato di Roncalli si colloca in anni di nuovi indirizzi per la politica: quella italiana alle prese con l'allargamento a sinistra guardato con sospetto da Cei e Sant'Uffizio; quella internazionale con il clima da guerra fredda. Papa Giovanni ha fatto politica?
«Da giovane aveva sperimentato l'incomprensione per certe aperture e volle impedire che si potesse continuare nell'equivoco. Della politica si occupò poco; direi "quanto basta". Tutti dobbiamo comunque essergli grati per aver preso in mano la bandiera della pace, che fino a quel momento era stata tenuta da Stalin, con la creazione "dei partigiani della pace", che facevano un monopolio di carattere internazionale di questo valore. Quando scrisse l'enciclica Pacem in terris, tramite un giornalista americano ne mandò un testo a Kruscev, che scrisse, di suo pugno, "per accettazione"».

Cosa rimane di lui?
«La semplicità dei modi e del linguaggio che non voleva dire affatto che fosse un semplice, alla contadina. Quella di Papa Giovanni XXIII è una delle figure che non sarà cancellata, e che ha rappresentato un momento di grande transizione, avendo allo stesso tempo un rispetto enorme per la tradizione, ma non spaventandosi mai per le novità. E per tutti rimane la memoria di un sorriso composto e illuminato».

Emanuele Roncalli

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