In coma dopo un raschiamento
Dopo 13 anni è morta Antonella

Dopo 13 anni in stato vegetativo, lunedì 2 settembre è spirata Antonella Giua, la giovane mamma in coma irreversibile dopo un intervento di raschiamento, una ventina di giorni dopo aver dato alla luce il proprio figlio, il primo marzo del 2000.

Per 13 anni è rimasta aggrappata alla vita, sospesa in quel limbo insondabile che è lo stato vegetativo. Per cielo un soffitto, come orizzonte le foto del figlio Antonio appese sulla parete di una stanza del centro Don Orione.

Antonella Giua ha vissuto in questo modo sino a lunedì, quando è subentrato il decesso. Era finita in queste condizioni dopo un banale intervento di raschiamento, due settimane dopo aver dato alla luce il suo bimbo. E quello che fa più male in questa storia di malasanità è che a 28 anni, giovane, bella e neomamma, s'era ritrovata a vegetare per colpa di una presa del tubo dell'ossigeno che era inserita male. Lo avevano stabilito i periti in un processo per lesioni colpose gravissime che nel giugno del 2004 in primo grado aveva portato a tre condanne e che sei anni più tardi finirà in prescrizione prima ancora di arrivare in appello.

Ora, dopo la morte di Antonella, la giustizia potrebbe rimettersi in moto. I pm Carmen Pugliese e Lucia Trigilio hanno deciso di disporre nuovi accertamenti - a cominciare dall'autopsia, in programma al cimitero di Bergamo nei prossimi giorni - che potrebbero portare all'apertura di un nuovo fascicolo, stavolta per omicidio colposo.

La donna, di origini sarde, aveva partorito il 28 febbraio del 2000, due anni dopo il matrimonio con Ermanno Cereda, milanese, all'epoca autotrasportatore con il quale era andata a convivere alla Celadina. Il parto era filato via liscio, restavano da asportare alcuni residui di placenta nell'utero. Nulla di preoccupante, tanto che madre e neonato erano stati dimessi dal reparto di Ostetricia e Ginecologia dei vecchi Riuniti. Il 13 marzo la giovane aveva però cominciato ad accusare forti dolori. Antonella era riuscita a resistere fino a sera, poi s'era fatta accompagnare dal marito all'ospedale.

L'intervento è uno di quelli di routine e viene programmato per l'indomani, perché la paziente ha appena cenato e potrebbe essere rischioso intervenire. Il 14 marzo, però, in sala travaglio qualcosa non funziona. La presa del tubo che avrebbe dovuto portare ossigeno è inserita male e a un certo punto si stacca, con Antonella che respira solo protossido di azoto e diventa cianotica.

Nessuno dei medici s'accorge, anche perché l'apparecchiatura con cui si sta operando non è dotata di sistema d'allarme. Un mix tra cattivo funzionamento del macchinari ed errore umano, e la neomamma diventa quello che è stata sino a lunedì. «Me lo ricordo ancora quel giorno - racconta ora Ermanno Cereda -. Ero fuori in corridoio ad attendere. Era un intervento che doveva durare 5 minuti, ma passano le ore e non vedo nessuno affacciarsi. A quel punto ho capito che era successo qualcosa di grave. Medici e infermieri non avevano il coraggio di uscire».

Parte la denuncia. All'inizio vengono indagati in sei, ma a processo finiranno in tre: l'anestesista Roberto D'Amicantonio, condannato a 22 mesi con pena sospesa; l'allora primario del reparto di Anestesia e Rianimazione Giuseppe Ricucci (200 euro di multa); e l'ingegner Alberico Casati, all'epoca responsabile della manutenzione ai Riuniti (300 euro). Il marito intenta anche una causa civile contro l'ospedale, che è stata una sorta di odissea. Il Don Orione all'epoca premeva infatti perché venissero pagate le rette e lui, Cereda, che aveva lasciato il lavoro per assistere la moglie e crescere il figlioletto, a un certo punto s'era ritrovato senza più un euro.

Nel dicembre 2005 il giudice stabilisce che alla famiglia di Antonella spettano un milione e 250 mila euro. «È stata una boccata d'ossigeno - ricorda l'uomo -. Ho potuto pagare le rette arretrate - e voglio sottolineare che lo staff di medici e infermieri del Don Orione in questi anni è stato meraviglioso - e ora questi soldi sono vincolati: servono per il futuro di Antonio, che ha 13 anni e vive in Brianza con la mia ex moglie. Lei e le mie figlie sono state fantastiche: quando io mi sono accorto che non ce l'avrei fatta a sopravvivere senza lavorare, loro l'hanno praticamente adottato. E ora posso dire che, nella sfortuna, mio figlio è stato fortunato: perché ha avuto due mamme».

Stefano Serpellini

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