Simone Moro ricorda Piantoni:
«Quel giorno, quegli occhi...»

«Me li ricordo ancora quegli occhi... Non c'era bisogno di parole, era tutto lì dentro, in quello sguardo, in quegli occhi pieni di amore e di riconoscenza...». Simone Moro, il celebre alpinista bergamasco, ricorda così Roby Piantoni, morto la notte tra mercoledì e giovedì sulle nevi del Sisha Pagma, uno degli «Ottomila» che svettano sopra il Tibet.

Quel giorno - nell'estate del 1992, quando aveva solo 15 anni - Roby Piantoni aveva percorso per la prima volta una delle vie che suo padre - Livio Piantoni, morto 11 anni prima sul Pukajirka, in Perù - aveva aperto sulla Presolana quando lui non era ancora nato. Al suo fianco c'era Simone Moro, che l'aveva accompagnato in questa prima, fantastica, avventura.

«Dalla roccia - ricorda Moro - aveva tolto due vecchi chiodi arrugginiti che suo papà aveva piantato quando aveva aperto quella via. Roby aveva preso anche un cordino del padre rimasto lassù tutto quel tempo. Uno dei due chiodi lo portò alla mamma Fulvia, l'altro alla sorella Denise: "Vi ho portato un regalo", disse alle due donne che lo aspettavano sulla porta di casa, "sono due chiodi piantati dal papà quando io non cero ancora". Quegli occhi, quello sguardo, me li porterò sempre nel cuore: non c'era bisogno di farsi dire cosa aveva provato in quei momenti, bastava guardarlo, il viso parlava per lui, per il suo cuore».

"Roberto - continua Simone Moro - era riuscito a trasformare il proprio sogno nella propria vita, e in tempi come quelli in cui viviamo non sono in molti quelli disposti a mettere in gioco tutto loro stessi per vivere un sogno, fino a morirne: lui c'è riuscito. Con fatica, con costanza, superando mille difficoltà, non ultime le resistenze della mamma, che non voleva che diventasse un alpinista. Io stesso lo aiutati a convincerla, ci parlai tante volte: "Roby ha un sogno - le dicevo -, lascia che lo insegua come suo padre, lascialo libero di volare tra le montagne", e così è stato».

«Roberto - continua Moro - non è stato vittima di un'imprudenza, ma di un sfortunatissima coincidenza: al suo passaggio le corde di collegamento hanno ceduto, non così quando sono passati i due alpinisti prima di lui... Non c'era nulla da fare, forse erano corde vecchie, logorate dal tempo, chissà... Magari qualcuno dirà che Roby la morte è andata a cercarsela, ma non c'è nulla di più sbagliato: quello che gli è accaduto è paragonabile a un incidente in auto che può capitare a ciascuno di noi ogni giorno, niente di più e niente di meno, cambiano gli scenari, ma la fatalità è la stessa. Non dimentichiamoci che Roby non era solo un alpinista, una guida, ma un maestro delle guide, il maestro dei maestri, e sapeva perfettamente quello che doveva fare: non c'era improvvisazione in quel che faceva».

«L'ultima volta che l'ho visto è stato a settembre, a Kathamandu, in un ristorante che, a pensarci adesso, aveva un nome profetico... "Ciao"... abbiamo mangiato lì tutti insieme, e poi ci siamo salutati. Era l'ultimo giorno utile per riuscire ad ottenere i permessi di entrata in Cina per scalare le montagne del Tibet, e lui era riuscito a farcela. Gli avevo fatto i complimenti, ma ora penso che se non ci fosse riuscito, sarebbe ancora qui con noi... Ma ve bene così... Sarebbe banale dire chè è morto come avrebbe voluto... Di certo è morto inseguendo il proprio sogno e questo gli può solo fare onore».

«Ora - conclude Moro - me lo immagino con il padre su nel cielo, a guardare le loro montagne e parlare delle loro imprese, come quella che papà Livio voleva fare sulla Presolana per dedicarla al piccolo Roby, ma che la tragedia del Pukajirka stroncò sul nascere. E così è stato Roby, sedici anni più tardi, nel 1997, ad aprire una nuova difficilissima via sulla parete nord della Presolana: la via di Livio per Roby divenne la via di Roby per Livio...». (A. C.)




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