«Infortuni sul lavoro, cambiamo strategia»

L’Asl: forse la soluzione sta nella lotta all’illegalità, diffusa anche nella nostra provincia

Otto morti in meno di otto mesi. Certo non sono le 24 vittime che nel 2000 hanno fatto della Bergamasca la provincia con il maggior numero di morti sul lavoro di tutta la Lombardia, ma il trend (stabilizzatosi negli ultimi tre anni tra le otto e le nove vittime l’anno) non riesce a scendere oltre. Dal 1999 ad oggi le cose sono comunque migliorate, tanto che, nel confronto con le altre realtà lombarde sugli ultimi cinque anni, la nostra provincia è al terzo posto (con 61 infortuni mortali contro gli 85 di Brescia e i 121 di Milano), tuttavia - nonostante gli innegabili sforzi dell’intero comparto - sembra impossibile riuscire a trovare nuovi margini di miglioramento.

Perché? «Perché, forse, le strategie fin qui seguite sono sbagliate». Quella di Bruno Pesenti, responsabile del Dipartimento di Prevenzione dell’Asl di Bergamo, può sembrare una risposta provocatoria, sulla quale è invece opportuno fermarsi a riflettere. «Quasi quotidianamente ormai - spiega Pesenti - la stampa porta giustamente all’attenzione dell’opinione pubblica il grave problema degli infortuni sul lavoro. La lettura che per lo più viene data delle statistiche divulgate dall’Inail, in estrema sintesi, è che nella nostra provincia non solo la situazione sembra non migliorare, ma che rispetto al resto della Lombardia e dell’Italia ci poniamo costantemente col triste "primato di maglia nera". Se così è, significa che gli interventi messi in atto in questi anni nel mondo del lavoro e le azioni di controllo, pur lodevoli nell’impegno, non hanno dato i risultati sperati. Forse allora dobbiamo chiederci se, per caso, non stiamo sbagliando strategia, altro che invocare l’assunzione di qualche ispettore in più! Forse dobbiamo chiederci se i "tavoli" dove si progettano sinergie e iniziative, costantemente attivi in questi anni con la partecipazione di istituzioni e forze sociali, ancorché animati dai migliori propositi, non abbiano solo fatto perdere del gran tempo ai partecipanti».

Dichiarazioni forti, ma che Pesenti rimarca nella speranza che qualcosa cambi: «Forse dobbiamo chiederci se il protocollo d’intesa raggiunto sulla sicurezza dei cantieri per la costruzione del nuovo ospedale di Bergamo, su cui hanno lavorato per mesi i committenti, l’Asl, i sindacati e gli organismi paritetici, darà qualche apprezzabile risultato, e se fra l’inizio e la fine dei lavori avremo solo i 50 infortuni gravi e i due morti "attesi". È possibile, lo pongo come ipotesi di lavoro, che la soluzione stia invece nella lotta all’illegalità, diffusa nella nostra provincia tanto che il prefetto, nei mesi scorsi, ha giustamente richiamato le forze dell’ordine e gli organi di controllo ad attivare maggiori collaborazioni per le verifiche nei cantieri. Va detto, per inciso, che è nell’illegalità sia l’extracomunitario clandestino sia chi lo fa lavorare "in nero". Forse ha avuto ragione l’Unione europea a sollecitare gli Stati membri ad attivare campagne estive di controlli nei cantieri ispirate alla "tolleranza zero" delle situazioni a maggior rischio. Forse ha ragione chi sostiene da tempo che per i bergamaschi morti sul lavoro all’estero magari c’è qualche responsabilità anche delle imprese bergamasche da cui dipendono».

Ma Pesenti non trascura nemmeno la piaga degli infortuni che coinvolgono minori: «Forse, se è vero come è vero che la nostra provincia ha il triste primato degli infortuni tra i minori, il problema non è tanto di sicurezza sul lavoro, ma di abbandono precoce della scuola da parte dei ragazzi (e anche in questo caso pare che abbiamo un triste primato in Italia) e forse molti di questi ragazzi abbandonano la scuola non per bisogno, ma per comprarsi anzitempo una moto da 200 chilometri all’ora, con cui purtroppo finiscono per elevare le statistiche degli incidenti stradali. Altro fenomeno drammatico in provincia».

Considerazioni condivise dallo stesso direttore generale dell’Asl, Silvio Rocchi, secondo cui bisogna cominciare a capire che la radicale modificazione delle tipologie di maestranze - soprattutto lavoratori in nero e/o extracomunitari - crea innegabili problemi dal punto di vista della sicurezza. «Ormai - sostiene -, in una provincia come la nostra, alla formazione e ai controlli tradizionali non si può chiedere nulla di più di quanto si sia riusciti ad ottenere fino ad oggi: resta il problema di mantenere le posizioni, ma aspettarsi ulteriori miglioramenti su questo fronte non è pensabile. In realtà bisogna cominciare a capire che è profondamente cambiata la composizione delle maestranze: all’operaio e al muratore "tradizionale", con una storia consolidata alle spalle, si sono oggi affiancati altri due tipi di lavoratori con caratteristiche molto diverse. Da un parte, infatti, c’è il lavoratore che lavora in proprio e che sfugge non solo a qualsiasi percorso formativo, ma anche a qualsiasi logica di controllo; dall’altra c’è il lavoratore "in nero", rappresentato, nella stragrande maggioranza, dagli extracomunitari. Sui primi è quasi impossibile riuscire ad intervenire concretamente, sui secondi, parlare di formazione quando siamo di fronte a presenze irregolari e "in nero", anche nelle imprese piccole, vuol dire prenderci in giro. I clandestini non utilizzano neppure il Servizio sanitario nazionale per non uscire allo scoperto, figuriamoci se seguono i corsi di formazione. In tutto il settore, c’è un giro di sommerso illegale che va contrastato efficacemente: se nel settore dell’assistenza socioassistenziale, come nel caso delle badanti, ci siamo trovati di fronte a una sorta di "rivoluzione positiva", sul fronte delle attività a rischio queste cose non possono essere accettate. Nell’interesse di tutti, è giunta l’ora della tolleranza zero».

(25/08/2004)

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