La Bergamasca ha fame di cuochi In 50 arriveranno 50 dall’Argentina

La cucina italiana è tra le migliori al mondo, ma se si va avanti così saranno gli stranieri a preparare il ragù alla bolognese, il risotto alla milanese o la polenta e uccelli. Perché mancano i cuochi: in Lombardia, e quindi nella Bergamasca, il problema si sta facendo pressante. Se ne lamentano i ristoratori, sia di livello medio e alto, sia titolari di trattorie e pizzerie. Se ne lamentano le associazioni di cuochi.

«Se in Lombardia esistono 34 mila aziende, tra ristoranti, alberghi e agriturismi, la questione riguarda almeno 60 mila posti per cuochi, pensando al ricambio o alle grosse realtà che hanno bisogno almeno di due, tre professionisti ciascuno - sostiene Ivar Foglieni , presidente dell’Unione cuochi della Lombardia -. E più si sale di livello, più il problema aumenta: non c’è bisogno soltanto di addetti in cucina per pizzerie-trattorie, ma anche di cuochi per locali di livello medio-alto. Il lavoro c’è, e parecchio, ma i cuochi italiani scarseggiano; e ormai nelle cucine un dipendente su tre è straniero. Per esempio, come Unione cuochi abbiamo di recente stretto accordi con un’agenzia sudamericana, per la collocazione nella Bergamasca di almeno 50 cuochi argentini, altrettanti camerieri e una quarantina di panettieri-pizzaioli. Sono italoargentini, come tecnica e gusto culinario sono molto vicini a noi. Ormai non si può pensare di contare solo sui diplomati degli Alberghieri: molti si perdono per strada, quando vedono che questo mestiere comporta sacrifici. Diciamo che solo un 10 per cento di chi inizia questo corso di studi poi fa il cuoco; e oltretutto molti dei diplomati se ne vanno a lavorare nelle mense: così il weekend è a disposizione, e di sera si va a a casa».

E con le retribuzioni? «Non si guadagna male, all’estero si è pagati di più - continua Ivar Foglieni, che è anche titolare del ristorante "Il Giopì e la Margì", a Bergamo - e un cuoco finito arriva a guadagnare dai 4.000 ai 6.000 euro netti: un ristoratore può sborsarli perché non deve versare ritenute e quant’altro. In Italia un cuoco medio arriva ai 2.000 euro: una buona cifra rispetto ad altri lavori, ma che comporta una vita sacrificata. Comunque, ritengo anche che i ristoratori dovrebbero investire di più sulla cura e la formazione del proprio personale. Se lo seguissero sin dall’inizio, invogliandolo a scoprire i segreti del mestiere, ci sarebbero meno problemi. Detto questo, il problema esiste: certo, si rischia di perdere la tradizione italiana, se non si pone rimedio. Ormai nei grandi alberghi lo chef executive e il suo aiuto sono italiani, gli altri, quelli che impareranno la nostra tradizione, sono tutti stranieri. Non è detto, comunque, che questo sia un male: dobbiamo pensare anche a una cucina globale. Già da tempo con la Provincia di Bergamo, la Regione e l’Unione cuochi è in atto un bel progetto di formazione: vengono nella Bergamasca ragazzi delle scuole alberghiere della Polonia e della Slovacchia a fare stage. Ci garantiamo una futura manodopera».

Sui segreti da tramandare, sulla ristorazione come un’arte è d’accordo anche Pino Capozzi , presidente dei ristoratori bergamaschi per l’Ascom, titolare dell’albergo-ristorante «Agnello d’Oro» in Città Alta, dell’hotel «Città dei Mille» e del «Guglielmotel» a Brembate. «Non ci si improvvisa titolari di un ristorante: se io prima apro un locale e poi cerco un cuoco il problema diventa più grande di quello che già esiste. Inoltre, si è persa la voglia di sacrificarsi, in questo mestiere: i giovani preferiscono fare due stagioni all’anno, in trasferta, anche in luoghi lontani; intascano parecchi soldi, e poi cambiano. Chi poi eccelle scappa all’estero, e spesso si apre un suo ristorante. Certo, per noi ristoratori il problema del ricambio generazionale diventa notevole. Credo che ci si debba impegnare nell’insegnare la cultura del gusto: gli istituti professionali fanno quello che possono, ben vengano anche le scuole di alta cucina. Che insegnino ai giovani anche l’importanza del patrimonio enogastronomico della propria terra: la tradizione tramandata da famiglia in famiglia ormai sta scomparendo. E invece è da qui che nasce la passione per la cucina».

E se le tradizioni non si tramandano, il terreno libero viene conquistato da forze nuove. «Stanno proliferando i locali etnici - dice Ivar Foglieni, dell’Unione cuochi -. Per esempio, la vera trattoria tipica non viene più passata da genitore a figlio: così i locali "a tema" vengono rilevati da arabi, africani che affittano il locale, e mettono la manodopera familiare e la loro cucina. Lo facevamo noi italiani, una volta, andando all’estero. Ora lo fanno loro, venendo da noi».

(09/04/2004)

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