La morte di Eugenio Bruni
«combattente della libertà»

di Franco Cattaneo
All'avvocato Eugenio Bruni, morto ieri a 92 anni, va riconosciuto pubblicamente un merito storico, e speriamo di non essere una voce isolata: quello di aver attraversato il Novecento, e pure il seguito, con la schiena dritta.

di Franco Cattaneo
All'avvocato Eugenio Bruni, morto ieri a 92 anni, va riconosciuto pubblicamente un merito storico, e speriamo di non essere una voce isolata: quello di aver attraversato il Novecento, e pure il seguito, con la schiena dritta.

Detto così, in questo misero 2010 e a 65 anni dall'epopea resistenziale, può apparire una banalità: ovvia e lontana. Ovvia, perché le persone di buon senso (e ci limitiamo a questo) non possono che rendere omaggio a figure coraggiose come Bruni: lui a Dachau e il fratello ucciso dai nazifascisti. Lontana, perché il tempo ha attenuato e immiserito quella temperie, rendendo (purtroppo) sfocati i padri ai quali dobbiamo libertà, democrazia e benessere. Bruni è stato avvocato, dirigente socialista e amministratore pubblico. E anche (spiegheremo come) padre premuroso e nonno affettuoso (come testimonia il dolore delle nipoti).

Ma c'è un punto di distinzione intransigente: è stato il leader storico dell'antifascismo bergamasco «senza se e ma». Su questo non lo si poteva schiodare, o accomodare nel senso di renderlo in qualche modo pragmatico e flessibile. Neppure il sottoscritto che, pur nella diffferenza d'età e in una cultura diversa dalla sua, aveva comunque un rapporto quasi filiale. Bruni faceva parte di quella prima linea di antifascisti che poi si ritroverà sui valori della Costituzione: lui socialista, e in posizione di leadership, ma anche democristiani, comunisti e laico-liberali. Una generazione irripetibile e antifascista in modo ultimativo: gente così non la fanno più, si dice così non è vero?. Il Nostro aveva un carattere difficile e talora imperioso, eppure distinto dalla stessa genia di cui faceva parte: la sua dimensione esistenziale e pubblica nasceva e si esauriva nell'antifascismo, che precedeva sia la posizione politica e la stessa professione.

Tutto questo ha dato il timbro e la cifra della sua esistenza: ha presentato le stimmate dolorose di una vita che s'è consumata nel patriottismo civico e repubblicano alla Pertini e alla Ciampi, in un solidarismo democratico che è stato il parametro etico di una generazione e un canovaccio a futura memoria. Scusate se è poco. Da questo punto di vista l'avvocato è stato l'esempio compiuto e riuscito di una borghesia illuminata bergamasca che, per inclinazione umanistica, ha coltivato il senso delle istituzioni e la responsabilità sociale verso il territorio. Un'élite liberale di cui, detto per onestà intellettuale, si sente la mancanza: capace di quell'azzardo che si chiama indignazione, ma anche di riconoscere i propri limiti e di ripartire nell'interesse generale. Qualcuno, se così si può dire, può spiegarlo agli ultimi arrivati? Bruni era un laico, di quelli orgogliosamente sedimentati, ma ciò non gli ha impedito una manifesta intriganza intellettuale e di interloquire in modo proficuo con il mondo cattolico, nel segno della miglior cultura della Prima Repubblica e che nella Bergamasca ha avuto positivi riscontri.

Ricordo - mi esprimo in prima persona, data la comunanza con l'avvocato - i cordiali rapporti di Bruni con monsignor Spada. Di don Andrea, come lo chiamava lui, apprezzava l'antifascismo e la vicinanza alla povera gente. Dico questo, perchè spesso mi parlava, con sofferenza, degli ultimi, dei poveracci. Erano parole tristi, che esprimevano al meglio il socialismo liberale e umanitario di questo personaggio. Questo aspetto va sottolineato: rende esplicita l'anima solidaristica di un mondo che si vorrebbe elitario, ma che in realtà era ed è popolare.

Bruni era buon amico de «L'Eco», almeno dai primi anni '90. Galeotta fu in'intervista a lui sull'Olocausto e da lì inizia un percorso di vicinanza, soprattutto con il sottoscritto, che non s'è più interrotto. Telefonava spesso al giornale: «Posso parlare con il mio fratello minore?», domandava al sottoscritto. E pensare che io, nei ricordi istituzionali del tribunale e di Palazzo Frizzoni, me lo ricordavo «altro», talora conflittuale, con quella sua retorica da avvocatura molto classica e altisonante, con quella sua «erre» arrotondata. In prima battuta il suo portamento impettito, veloce nell'incidere e per certi aspetti vetero-risorgimentale, con quei suoi tweed che si spalancavano all'appallottolarsi della toga da avvocato, segnalavano un'alterità rispetto a noi comuni mortali. Mi ero sbagliato e così ho cominciato a vederlo sotto una nuova veste: quella del padre di famiglia, del grande saggio. Una scoperta inedita, ma credo possa incuriosire i numerosi amici di vecchia data di Bruni.

«Caro Cattaneo, cosa mi dice di mio figlio?», mi chiedeva con circospezione, per poi concludere con un cortese «Non dica niente a Roberto». C'erano, in quelle telefonate, la paternità che sapeva arrestarsi dinanzi al rispetto delle istituzioni: Bruni senior conosceva troppo bene l'etica politica per non saperne i confini. In questi ultimi anni ho trovato, dietro la tempra del combattente, dell'uomo tutto d'un pezzo, un gentile signore capace di raggiungere il giusto mezzo. Sempre in grado, intendiamoci, di rompere le righe e di strapazzare il sottoscritto, che pure gli era amico, per via delle interviste che pubblicavamo a Giampaolo Pansa. Una musica, questa, che non solo non voleva sentire: lo infastidiva, per una questione di pelle. E allora bisognava lavorare di cucito, si strizzava l'occhio all'ingener Salvo Parigi, l'amico di una vita di Bruni, che con l'avvocato veniva al giornale per segnalarci la tale comemorazione del partigiano ucciso piuttosto che un'altra commemorazione.

Un tandem, quello di Bruni e Parigi, di indubbia simpatia, ma anche di straordinaria umanità che pone pur sempre una riflessione su questi combattenti dall'età più che matura. Che non demordono, che restano in trincea come memoria storica e come memorial pedagogico per le nuove generazioni. Chissà se ci sono riusciti e chissà se il buon Parigi, ora che è rimasto solo dopo essere stato a lungo al capezzale dell'amico Eugenio, ci riuscirà. Però, nel ricordare con rimpianto un galantuomo della tempra di Bruni, una cosa andrebbe ricordata: averne, di bergamaschi così.

Franco Cattaneo

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