La tragedia siriana
al punto di partenza

La svolta improvvisa sull’eterno campo di battaglia siriano, con i venti di guerra tra Turchia e Siria alzatisi quando l’esercito di Bashar al-Assad sembrava ormai sul punto di riconquistare il pieno controllo della situazione, ha per ora un solo tratto sicuro, ovvero l’ennesima sconfitta del popolo curdo. Per evitare il tracollo, e un effetto domino che avrebbe coinvolto anche il resto del Rojava, le milizie curde del cantone di Afrin si sono rassegnate a chiedere l’aiuto di Damasco, rinunciando così al sogno di una larga autonomia all’interno di una Siria federale (o di un’indipendenza di fatto mascherata da autonomia) che pareva ormai a portata di mano. E si badi bene: come già nei primi decenni del Novecento, sono state le potenze occidentali a tradirli.

Nel settembre scorso gli Usa sconfessarono il referendum per l’indipendenza varato dal loro alleato Massoud Barzani nel Kurdistan iracheno, condannandolo a un’umiliante ritirata e poi all’isolamento. Adesso hanno abbandonato i curdi siriani, loro alleati, alle cannonate di Recep Erdogan, spingendoli a invocare l’intervento di Assad come l’unica ancora di salvezza.

Per il resto, si avvita su se stessa una ridda di paradossi difficili da districare. Per esempio: non c’è norma o uso del diritto internazionale che possa giustificare la Strafenexpedition (spedizione punitiva) lanciata dalla Turchia contro i curdi di Afrin, ovvero contro i cittadini di un altro Stato sovrano (la Siria) e sul territorio di quello stesso Stato, con il pretesto della loro «complicità» con i terroristi del Pkk interni alla Turchia. Però questa Siria è la Siria di Assad, quindi la famosa «comunità internazionale» tace e lascia fare. Nello stesso tempo, però, le bastonate turche (si parla di quasi 1.700 combattenti curdi «neutralizzati») possono essere convenute anche ad Assad, che ha lasciato a Erdogan il compito di indebolire un potenziale nemico interno e ora cerca di riprendersi il controllo di quella parte di Siria che comunque aveva perso a favore delle milizie curde.

Altro paradosso: la Russia, che aveva vinto la guerra, rischia ora di perdere la pace, come tante volte è avvenuto, per esempio in Afghanistan e in Iraq, ai rivali Stati Uniti d’America. Per Vladimir Putin si tratta, ora, di trovare un accordo che possa soddisfare le esigenze della Siria (riaffermare l’autorità di Damasco anche nella zona curda che confina con la Turchia) insieme con quelle della Turchia, che vuole stroncare qualunque velleità curda di costruire un santuario nel Nord della Siria e magari stabilire una sorta di contiguità territoriale con il Kurdistan iracheno, cosa che Erdogan considera una minaccia alla sicurezza nazionale. L’impresa non è facile, anche se non si capisce come Turchia e Siria possano davvero pensare di andare alla guerra, nelle condizioni in cui sono, con i nemici che hanno e con le turbolenze sanguinose che attraversano tutto il Medio Oriente. È vero però che si è visto anche di peggio, quindi non è il caso di essere ottimisti.

Ma il paradosso più grande di tutti, in quello che sta succedendo, è che dopo sette anni di guerra siamo tornati quasi al punto di partenza. L’unica differenza è che ora a mettere la faccia sulla crisi, sugli scontri e sui massacri sono i veri protagonisti. Niente più Isis, Al Nusra, Al Qaeda, Hezbollah e mascherature varie. Ora in campo ci sono Usa, Russia, Turchia, Iran. Apertamente. Senza più scuse né giochini diplomatici. Pronti a far scontare alla Siria le rispettive ambizioni. Tutto si fa più pericoloso ma anche più semplice da giudicare. Purtroppo.

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