«Costruisco ponti dell'altro mondo
nel mondo dei poveri della Terra»

Più visionario del connazionale fondatore della Croce Rossa, Toni Ruttiman, 41 anni, montanaro dell'Engadina, sorriso disarmante, rigore elvetico e intelligenza d'acciaio, non l'ha fermato neppure la sindrome di Guillain–Barré, una malattia autoimmune che si mangia la mielina e ti paralizza in pochi giorni.

Più visionario del connazionale fondatore della Croce Rossa, Toni Ruttiman, 41 anni, montanaro dell'Engadina, sorriso disarmante, rigore elvetico e intelligenza d'acciaio, non l'ha fermato neppure la sindrome di Guillain–Barré, una malattia autoimmune che si mangia la mielina e ti paralizza in pochi giorni.

In convalescenza per un anno e mezzo a Bangkok, per otto ore al giorno esercitava ogni distinto muscolo del corpo e intanto pensava a come rendere più veloce, efficiente, sicura la costruzione dei ponti sospesi che monta gratis in giro per il mondo. Anzi, nell'altro mondo, dice lui, quello dei poveri, che è così sperduto ai confini di tutto che se non vai a cercarlo non lo vedi. E dal pensare è nato il suo ufficio di progettazione chiuso nel laptop.

Così come la sua casa, da 24 anni, sono due borsoni da viaggio. É passato in questi giorni a Dalmine, alla Tenaris per aggiornare gli amici sui suoi progetti, no, sui suoi ponti, perchè ci tiene a dire che fa solo quelli, e costruito il ponte, sparisce.

Tenaris le manda vagonate di tubi con scritto sopra solo «A Toni el suizo», Toni lo svizzero. Che storia è?
«Nel 2004 come sempre cercavo materiale usato per costruire ponti in Messico. Ho chiesto alla Tamsa (società messicana del gruppo Tenaris, ndr), non ricevevo risposta ed ero preoccupato. Poi mi è arrivata una mail. Avevano chiesto ai vertici e Paolo Rocca aveva risposto che per quello che facevo i tubi non potevano vendermeli. Me li regalavano. E da tutti gli stabilimenti del gruppo, trasporto gratuito compreso. E non solo i tubi, anche le piastre d'acciaio che uso adesso per il pavimento delle passerelle. I cavi invece me li regalano le funivie e le funicolari svizzere quando li cambiano, finora 280 km di cavi».

Quanti ponti di villaggio ha costruito?
«A oggi 561: 233 in Asia e 328 in America Latina. In tutto servono un milione e 600 mila persone. Ne abbiamo altri 33 in costruzione, per 26 abbiamo fatto il rilevamento e 83 sono in lista d'attesa».

Dati aggiornati al?
«Nel computer ho la situazione in tempo reale. Funziona così: nel Paese dove siamo, verifichiamo se esistono richieste al governo di ponti da parte di villaggi isolati, esaminiamo le mappe e facciamo sopralluoghi per capire dove i ponti sono necessari. Si tratta di ponti pedonali sospesi, possono passare biciclette e moto, ma non altro. Il modello è unico, in lunghezze da 30 a 120 metri. Quando mi sono ammalato, ho cominciato a interessarmi di database e ho costruito un mio programma che mi permette di verificare in pochi minuti, e con la correzione automatica degli errori anche di centesimi, se il ponte è efficiente e sicuro in una certa situazione. Detesto sprecare il materiale e in questo modo so esattamente quanto ne devo usare. I 26 parametri necessari me li mandano i miei collaboratori sul posto, che compilano la griglia nel primo internet cafè che trovano. In base alla risposta viene predisposto il materiale».

Quanti siete?
«Adesso lavoriamo in Ecuador e Myanmar. In Ecuador sono due, Walter Yanez, che è con me da vent'anni, e un saldatore. In Birmania c'è un ex monaco buddista e cinque saldatori».

E poi?
«E poi io. Non c'è una ong o altro, non faccio raising fund. Costruiamo una settantina di ponti all'anno. Io e il monaco non siamo pagati, gli altri sì grazie all'aiuto di una signora di Houston che ogni anno ci versa 50 mila dollari per questo».

Come ci riuscite?
«Il materiale l'ho sempre cercato usato o scartato dalle compagnie petrolifere e dalle aziende. Il lavoro viene fatto dalla gente dei villaggi dove costruiamo il ponte. Per esempio in Birmania il governo ci ospita nei cantieri navali del porto di Yankon, nel Sud, e i ponti li costruiamo nei villaggi del Nord. Come dire da Genova alla Polonia. Il villaggio si cerca il camion, si autotassa per il carburante, vien giù a prendersi il ponte in scatola di montaggio e lo porta a casa. Noi, nel frattempo, abbiamo fatto il sopralluogo e detto alla gente cosa deve preparare e come. Una volta sul posto, ci metto due ore. Torniamo poi a montare il ponte: due giorni per le fondazioni in cemento dei piloni, tre ore per tagliare e sei per montare, in un giorno si fa un ponte fino a 60 metri, due per i ponti di 120 metri. Di solito mettiamo in cantiere più ponti nella stessa zona, in modo da ottimizzare il tempo e non viaggiare inutilmente per ore su piste impossibili. Poter pretagliare, saldare e verniciare i pezzi al porto ha semplificato molto il lavoro. In Ecuador invece tagliano e saldano sul posto».

Com'è cominciata questa storia?
«Nel 1987, due settimane prima della maturità, ho visto le immagini del terremoto in Ecuador e ho pensato di andarci. Sono partito la notte della maturità, anche se mio padre mi diceva: che cosa vuoi fare da solo, che non aiuti nemmeno in casa. Sono arrivato e c'era un fiume largo e veloce, il terremoto aveva distrutto i ponti e i villaggi erano isolati. In 19 anni in Svizzera non mi ero mai chiesto cosa significa non poter passare all'altra sponda. Lì vedevo gente disperata. Mi sono innamorato dell'idea di fare ponti. Ho conosciuto un ingegnere olandese volontario e insieme abbiamo deciso di fare un ponte per due villaggi isolati, in quattro mesi ci siamo riusciti: era orribile, ma funzionava. Tornato a casa, mi sono iscritto a ingegneria a Zurigo e ho resistito sette settimane. Volevo essere competente, avere un mestiere, ma una voce mi diceva che dopo cinque anni di bella vita non mi sarei più mosso. A Natale ho lasciato la facoltà, ho fatto disperare i miei e sono ripartito da solo per l'Ecuador. I primi erano ponti di legno e ferro, cercavo il materiale di scarto delle aziende, qualche operaio locale mi regalava una domenica di lavoro, la gente dava una mano. Non sapevo niente della vita dei poveri. Quando prendi la malaria ti chiedi se era proprio questo che volevi. Ma ogni problema superato era una conferma che la strada era giusta. Dopo quattro anni son tornato in Engadina, mi han dato due camion vecchi e un tiracavi, ho portato tutto in Ecuador. Poi ho incontrato Walter Yanez, un meccanico e saldatore che ha deciso di lavorare con me. Così sono passati altri dieci anni. Quando c'è stato l'uragano Mitch in Centroamerica abbiamo deciso di dare una mano e poi siamo passati in Messico fra complicazioni burocratiche infinite».

E in Asia come è arrivato?
«Mentre ero in Svizzera, un rifugiato cambogiano durante una presentazione mi ha chiesto di intervenire in Cambogia. Il rifugiato era cugino di un ministeriale e in due settimane i documenti erano a posto. Io e Walter siamo partiti pagandoci il viaggio con i soldi di un premio che avevamo vinto. Siamo andati a Nord verso le ultime roccaforti dei Khmer rossi, c'erano i cartelli dei campi minati. Walter era sempre più silenzioso e dopo alcuni giorni mi ha detto che tornava a casa. Non reggeva la lontananza dalla famiglia, il cibo, l'impossibilità di comunicare. Così sono rimasto solo e non sapevo dove sbattere la testa. Ma poi sul posto ho trovato due bravi saldatori e abbiamo cominciato. Alcuni ponti sono stati costruiti insieme ai khmer rossi, gli ultimi, arroccati a Nord. Lavorare insieme aiuta la gente a superare l'odio e il passato. Poi si sparge e la voce e vai da un paese all'altro.».

Quanto vale il lavoro che ha fatto?
«Non ho mai calcolato quale valore economico per una comunità ha l'avere un ponte che permette di muoversi verso la città e i mercati, bisognerebbe farlo».

E tutto il lavoro amministrativo e di contatti?
«Col computer, di notte».

Tutti questi anni da solo, neppure un gruppo d'appoggio, niente famiglia. Non ha mai pensato di mollare?
«Mollare sarebbe come non vivere, non ho mai pensato di non vivere, è duro ma dev'essere così. L'amore per me è unire cavo dopo cavo, vite dopo vite, l'amore si costruisce».

Susanna Pesenti

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