«Studio come combattere la Sla
Intanto ho vinto il mio tumore»

di Marta Todeschini
Come un gruista salvato da una gru che si trova proprio a due passi dalla sua auto finita in bilico su di un precipizio. Anzi di più: la storia di Caterina Bendotti va ben oltre la coincidenza. È studio e motivazione.

di Marta Todeschini
Come un gruista salvato da una gru che si trova proprio a due passi dalla sua auto finita in bilico su di un precipizio. Anzi di più: la storia di Caterina Bendotti va ben oltre la coincidenza. È studio e motivazione. Con la consapevolezza che con la malattia, prima o poi, ci dobbiamo fare i conti, tutti.

Caterina Bendotti è il capo del laboratorio di Neurobiologia molecolare dell'Istituto di ricerche farmatologiche Mario Negri, dipartimento di Neuroscience. Lavora a Milano e con cadenza milanese spiega che, però, si sente «scalvina dentro». Originaria di Vilminore, all'età di cinque anni si è trasferita nella metropoli e dal 1970 fa la ricercatrice, dopo una laurea in Farmacia e un periodo di postdottorato all'università Johns Hopkins di Baltimora, negli Stati Uniti. Malattie rare, in particolare una di cui si sente sempre più parlare: Sla, sclerosi laterale amiotrofica.

Rara come quella che si è ritrovata a combattere sulla sua pelle. «Nel 2004 mi è stato diagnosticato un linfoma, una malattia rara, io che studio le malattie rare – spiega –. Si tratta di un linfoma cutaneo, o sindrome di Sezary. I primi sintomi li ho avuti nel 2000, con un prurito generalizzato. Ci sono voluti però quattro anni per capire di cosa si trattasse. All'inizio si pensava a un'allergia, fino a che un giovane dermatologo dell'Ospedale Sacco mi ha fatto una biopsia, diagnosticandomi questa malattia. poi mi sono rivolta agli Ospedali Riuniti di Bergamo».

Rientro «forzato» - Un ritorno a casa: a Bergamo, Caterina si rivolge al professor Rambaldi, «perché in passato aveva lavorato al Mario Negri. Per la parte ematologica, perché la malattia era diffusa anche al midollo osseo – aggiunge –, mi sono rivolta a lui».
Da lì la trafila delle chemioterapie, vari trattamenti, «ma senza beneficio. Nel 2009 mi sono decisa a fare il trapianto, dopo aver scoperto che una mia sorella aveva una buona compatibilità». Dentro le vene ricomincia a scorrere energia grazie ad Angela, una dei cinque fratelli di Caterina.
«Era il 22 luglio 2009, il primo giorno della mia seconda vita. Ho fatto il trapianto a Bergamo, poi un mese di camera sterile e altri quattro di controlli quotidiani». E la scalvina trapiantata a Milano ricomincia a frequentare la sua terra d'origine per un «soggiorno forzato» che, oggi, non esita a descrivere come «un'esperienza molto bella, anche dal punto di vista umano».

L'hotel non è un hotel, per lei: è la «Casa del sole» costruita dall'Associazione Paolo Belli proprio davanti all'ingresso dell'ospedale di largo Barozzi. Quella casa gialla come il sole diventa la sua casa e così, a due passi (proprio due) dal reparto di Ematologia, può tenere sotto controllo i possibili effetti collaterali da rigetto. «C'erano anche dei bambini – ricorda –, un arricchimento per me».

Nuova vita e slancio - Da questa storia personalissima Caterina la ricercatrice trova slancio anche – e soprattutto – nel suo lavoro. Perché, ne è sempre più certa, «la ricerca è la mia vita». Due volte: è il suo lavoro, l'ha fatta guarire. «Il trapianto di midollo ha alle spalle una lunga ricerca: a Bergamo col trapianto si è risolto il 50% dei casi di leucemia, è un risultato importantissimo. Cambiata dalla malattia? Certo, mi ha dato ancor più forza per andare avanti».
Cioè per cercare di capire come bloccare la Sla che ti blocca nei movimenti, rinchiudendoti, cosciente sino all'ultimo, dentro un corpo che pian piano ti diventa guscio. «Senz'altro la mia è una ricerca particolare, difficile – aggiunge la dottoressa Bendotti –, perché studiando la Sla abbiamo a che fare con cellule del sistema nervoso, del midollo nervoso, che è impossibile da prelevare. Ma vedere questi successi, il successo della ricerca, mi dà fiducia».

E parla di «qualche spiraglio in più» che le lascia dire: «Penso che in una ventina d'anni si possa scoprire come bloccare la malattia. Stiamo cercando di capire se è possibile intervenire sulle alcune proteine per inibire quelle che innescano processi di morte dei neuroni, ancor più accelerati dalla Sla».
Così questa scalvina che si sente «molto amata dalla mia gente, ho avuto una tale manifestazione di vicinanza, durante la malattia, che non mi aspettavo e mi ha aiutato tantissimo», guida un gruppo di dieci ricercatori e, tra un congresso e l'altro, si occupa della ricerca dei fondi: «Elaboro progetti da sottoporre al ministero o ad associazioni, italiane e internazionali». E se il suo mestiere ora è convincere il mondo a sostenere la ricerca, basterà il suo sorriso di donna guarita a sfondare ogni remora.

Marta Todeschini

© RIPRODUZIONE RISERVATA