Mafia, inchiesta della Dda di Brescia
«Un ristorante su 3 ricicla soldi sporchi»

«Un incendio è un chiaro segnale». Rocco Artifoni, uno dei portavoce del coordinamento bergamasco di «Libera», commenta la «notte di fuoco» di Treviglio.

Mercoledì sono bruciati una pizzeria e un negozio di abbigliamento. Sugli episodi non c’è solo l’ombra del dolo, ma pure quella della mafia. I rappresentanti dell’associazione di Don Luigi Ciotti che da anni si batte contro le mafie hanno pochi dubbi: un collegamento con la presenza sempre più radicata delle organizzazioni criminali nella Bassa è da prendere seriamente in considerazione. «Può benissimo darsi che i fatti non siano stati preceduti né da minacce né da estorsioni (come testimoniato dai gestori delle due attività, ndr), ma l’incendio è il classico modo con cui le mafie si presentano per dire che controllano un territorio», afferma Artifoni.

Del resto i dati recenti sono poco rassicuranti. La Direzione distrettuale antimafia di Brescia, invitata proprio da «Libera» in un incontro a Caravaggio, ha addirittura corretto il dato di una ricerca universitaria: in Bergamasca non sarebbe uno su cinque il ristorante-pizzeria usato dalla malavita per riciclare denaro sporco, bensì uno su tre. I «tentacoli» si spostano dalle raffinerie di droga delle Valli alle imprese economiche della Bassa e dei Laghi, seguendo l’odore dei soldi.

«Le mafie penetrano nelle imprese, per impadronirsene. Il loro obiettivo è dare occupazione, fare concorrenza sleale. La ristorazione è uno dei principali settori dove reinvestire i soldi delle attività illecite per farli diventare puliti», è l’analisi. Il fenomeno non è nuovo. Già nel 1994 la Commissione Antimafia scrive nero su bianco che «Bergamo è un transito sicuro per le mafie». Andando a ritroso, si scopre che i due principali narcotrafficanti italiani hanno origine o casa dalle nostre parti: Pasquale Locatelli è nato ad Almenno San Bartolomeo, Roberto Pannunzi, nel 1977, gestiva il Grand Hotel di San Pellegrino.

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