Malattia rara dei bimbi, il Negri scopre la causa

Una scoperta che potrebbe dare scacco alla sindrome emolitico-uremica aprendo concrete possibilità di cura, fino ad oggi insperate. È quella che l’Istituto Mario Negri ha fatto nei laboratori di Villa Camozzi, a Ranica, dove un team di ricercatori tutto bergamasco ha trovato il secondo interruttore che accende la malattia. Principale causa di insufficienza renale acuta nei soggetti pediatrici, la sindrome emolitico-uremica («Seu») è una patologia rara che colpisce 2 bambini ogni 100.000 nati, quasi sempre nei primi anni di vita e per lo più dopo un episodio di gastroenterite.

A provocarla, in questi casi, è un batterio della famiglia dell’Escherichia-coli e la maggior parte dei bambini malati guarisce una volta risolta l’infezione.

C’è però una forma ancor più rara della malattia, dovuta a cause genetiche, che spesso colpisce bambini molto piccoli, a volte anche alla nascita. Studi condotti dall’Università di Newcastle e di Madrid, e dal Negri di Bergamo, avevano già dimostrato che nel 20-30% dei casi la malattia è dovuta all’alterazione di un gene che regola la sintesi di una proteina, il fattore H. Le conseguenze sui reni dei bambini sono gravissime, tali da richiedere l’immediato utilizzo della dialisi. Ma la dialisi - soprattutto nei bambini - non può certo essere la soluzione definitiva, senza contare che nei soggetti più piccoli è molto difficile da eseguire. Per affrontare casi come questi non esiste una cura specifica, nemmeno il trapianto di rene, perché la malattia torna a ripresentarsi. Per la maggior parte dei bambini con questo difetto genetico il destino è segnato: muoiono in tenera età e dopo molte sofferenze.

Finora, però, non si sapeva cosa provocasse la malattia nel 70-80% dei soggetti privi di anomalie nel fattore H, ma in cui la sindrome si trasmette comunque per via ereditaria. Una lacuna colmata dal «Negri Bergamo», che ha scoperto (grazie a un finanziamento di 197.800 euro da parte di Telethon) che a scatenare la sindrome in queste persone è l’alterazione di un secondo gene, responsabile della sintesi di un’altra proteina, l’Mcp. «L’alterazione - spiega Giuseppe Remuzzi, coordinatore delle ricerche del "Negri", a capo del gruppo di studio composto da Marina Noris, Simona Brioschi, Jessica Caprioli, Marta Todeschini, Elena Bresin, Francesca Porrati, Sara Gamba - è stata trovata in due fratelli. In entrambi, la malattia si era manifestata da piccoli, a pochi anni di vita, ma in uno dei due ha causato la perdita della funzione dei reni così da richiedere la dialisi. Da qui la richiesta della paziente, ora una giovane donna, di un trapianto di rene. Questo lavoro apre una prospettiva di cura per questi ammalati, perché - a differenze del fattore H, presente nel sangue poiché prodotto dal fegato - il gene per l’Mcp si esprime soprattutto nel rene, dove serve a proteggere i vasi sanguigni dalle reazioni infiammatorie. In questi casi è logico aspettarsi che il trapianto di un rene da un donatore sano fornisca la proteina normale e possa correggere il difetto genetico». Per tutti questi casi, dunque, il trapianto di rene potrebbe essere risolutivo: «Il condizionale è d’obbligo - commenta Remuzzi, direttore dell’Unità operativa di Nefrologia degli Ospedali Riuniti - perché non c’è ancora la forza dei numeri a dimostrarlo. Per ora siamo infatti nel campo delle ipotesi, ma nel caso del fattore H avevamo la certezza del rigetto del trapianto nel 100% dei casi, mentre con l’Mcp abbiamo trovato tre casi su tre in cui la malattia è stata risolta con il trapianto».

Un lavoro di grande spessore tanto che il «Lancet», tra le più prestigiose riviste mediche del mondo, l’ha pubblicata l’8 novembre dopo solo tre giorni dalla presentazione (contro una media di circa tre mesi, tenendo anche conto che la rivista non pubblica più dell’8% dei lavori presentati in redazione).

(12/11/03)

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