Sequestro Moretti: si apre il processo

Processo al presunto rapitore: parla uno dei vecchi investigatori. Svelati dopo 22 anni i segreti dell’indagine. La pista delle cosche

È puzzle di soffiate e di pedinamenti, di indagini sovrapposte, con carabinieri e polizia che si tengono gelosamente per sé le proprie piste. È un intrico di misteri, di presunti responsabili che svaniscono e ricompaiono, di informazioni e latitanti che viaggiano dalla Calabria alla Lombardia, un garbuglio su cui s’allunga persino l’ombra della ’ndrangheta.

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Un sequestro di 22 anni fa
Toglie ancora il fiato dopo 22 anni, sentirla raccontare la caccia a questa ragazza che per quasi cinque mesi è rimasta in mano ai rapitori, con gli inquirenti che paiono sempre a un millimetro dalla prigione in cui è tenuta sequestrata, la famiglia che trepida accanto a un telefono e la città di Bergamo a dondolare tra paura e smarrimento. Finirà bene, finirà in una nebbiosa notte del novembre 1986 su una strada di Caponago (Milano), con Nicoletta Moretti, all’epoca ventiduenne figlia del re bergamasco dei mangimifici, che sorride ai carabinieri giunti pochi istanti dopo che i sequestratori l’hanno liberata. Nessun riscatto versato: gli autori, che l’avevano rapita il 9 giugno mentre rientrava nella villa di famiglia alla Malpensata, chiedevano 5 milioni di dollari; si sono accontentati di farla franca dopo essersi sentiti addosso il fiato delle forze dell’ordine.

Il caso riaperto
Ma il caso, che sembrava essere evaporato insieme ai suoi protagonisti, è stato riaperto due anni fa dalla polizia scientifica di Bergamo, quando l’Afis, la banca dati elettronica del ministero degli Interni, ha inghiottito le impronte lasciate su un sacchetto della spesa trovato nella Bmw dei rapitori e ha sputato fuori un nome: quello di Pasquale Forti, calabrese di 51 anni, uno che era finito nel mirino degli inquirenti come sospettato, ma che nel ’94 era stato prosciolto per mancanza di gravi indizi.

L’imputato respinge le accuse
E così questa storiaccia ha ricominciato ad affacciarsi da verbali ingialliti e foto sbiadite, da un mondo che sembrava archeologia criminale e che invece è ridiventato cronaca, tra testimonianze che profumano di nostalgia e facce di vecchi sbirri strappate per un pomeriggio alla pensione e prestate a questo processo contro Pasquale Forti, che è iniziato nei giorni scorsi davanti al collegio del tribunale presieduto da Gaetano Buonfrate (a latere Federica Gaudino e Ilaria Sanesi) e che vede il cinquantunenne imputato di sequestro di persona a fini di estorsione (anche se lui s’è sempre dichiarato estraneo). L’uomo ha puntualmente respinto le accuse. Il suo avvocato va ripetendo che bisogna capire bene come quel sacchetto della spesa sia finito nella Bmw del rapimento.

Il residence di Rodano
È comunque lui il latitante a cui erano giunti i carabinieri di Bergamo, grazie a una soffiata piovuta da Reggio Calabria, è tramite i tormentati pedinamenti nei suoi confronti che contavano di arrivare alla prigione di Nicoletta. I militari gli hanno vissuto accanto per qualche giorno in un residence di Rodano, nel Milanese, un appartamento che gli inquirenti sospettavano fosse la base logistica del sequestro. Lo ha raccontato in aula il primo dei testimoni citati dal pm Enrico Pavone (oggi nella seconda udienza sfileranno altri testi), il maresciallo Gilberto Lovato che in quel 1986 comandava il nucleo anticrimine dei carabinieri di Bergamo e che ora lavora al nucleo operativo.
«A luglio, quando Nicoletta Moretti era ancora nelle mani dei rapitori, tramite una fonte confidenziale calabrese eravamo venuti a sapere di due latitanti che dovevano fungere da carcerieri – ha spiegato il sottufficiale –. Uno dei due era Forti».

Rotta Calabria-Milano
Così i militari, che stanno conducendo un’indagine parallela a quella della Squadra mobile, seguono – debitamente indirizzati dall’informatore – un uomo in arrivo a Milano dalla Calabria, secondo l’accusa per dare indicazioni ai sequestratori. I pedinamenti portano a poco a poco al residence di Rodano, località Mille Pini. È qui che i carabinieri vedono e fotografano Pasquale Forti. Secondo gli inquirenti il calabrese, latitante per un altro reato, vivrebbe lì sotto mentite spoglie e si alternerebbe (15-20 giorni a testa) con un conterraneo nella gestione della prigioniera, tenuta segregata in un altro posto. Quale? I militari non lo sanno, contano di arrivarci tenendo d’occhio Forti. Per farlo al meglio, «prendono in prestito» – sono le precise parole di Lovato – un appartamento sopra il suo. L’osservazione dura tre giorni, poi a un certo punto il calabrese sembra sparire. Ricomparirà un paio di settimane più tardi. Il 24 settembre i carabinieri decidono di arrestarlo dopo averlo pedinato a Milano: Forti dev’essersi accorto di avere le forze dell’ordine alle calcagna, ed è pur sempre un latitante.

L’arresto di Forti
«Volevamo prenderlo all’insaputa di quelli che lo frequentavano e spingerlo a parlare. Durante l’arresto lo abbiamo caricato sul furgone civetta che usavamo per l’attività di osservazione – ha rivelato il maresciallo Lovato – ma qualche passante, temendo un rapimento, ha avvertito i carabinieri di Milano. Che hanno fermato anche i due soggetti in contatto con Forti, mandando così all’aria i nostri piani».
A Lovato e ai suoi non resta così che puntare l’attenzione su altri personaggi che ritengono collegati al sequestro. L’intenzione non è di arrestare subito, ma di arrivare alla prigione di Nicoletta. A fine ottobre dalla Calabria sale un presunto emissario di una cosca con il compito di gestire – secondo le rivelazioni del confidente – le ultime fasi rapimento. «Ma insieme a una donna – ha svelato il maresciallo – venne arrestato per ricettazione dopo essere stato sorpreso su un camion con merce rubata».

La pista di Arona
Gli uccellini calabresi però cantano che è un piacere. Gli uomini di Lovato vengono a sapere che il covo dove è tenuta segregata la giovane potrebbe essere dalle parti di Arona, in provincia di Novara. «Abbiamo fatto una perquisizione "di massa" in molti paesi della zona, nelle case abitate da calabresi», ha raccontato il sottufficiale. Non trovano nulla, ma è forse in quel momento che i rapitori sentono il fiato sul collo e decidono di cambiare aria o di mettere la parola fine al sequestro. È la sera del 1° novembre: «Dalla nostra fonte abbiamo saputo che a Caponago ci sarebbe stata la liberazione o il trasferimento dell’ostaggio. Siamo intervenuti con molti equipaggi in zona e abbiamo trovato la ragazza, ma non i suoi sequestratori».

(23/04/2008)

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