Stadi, ultrà e impunità generale
Se in Italia nessuno paga mai i danni

Spesso nella lotta alla violenza negli stadi ci si riempie la bocca un po’ a sproposito con il modello inglese, ma oltre Manica qualche risultato c’è stato. E soprattutto perché da quelle parti c’è un consolidato ricorso alla pena pecuniaria: chi sbaglia paga davvero.

Due partite a chilometri di distanza. E anche anni, visto che risalgono entrambe al 2002. Al Saint Andrews di Birmingham si gioca l’attesissimo derby tra i Blues e il più nobile Aston Villa. Per il Birmingham è la prima stracittadina dopo anni, e finisce nel migliore dei modi possibili: 3-0. L’ultima rete è un clamoroso autogol da retropassaggio che scatena l’ilarità generale: un tifoso blue in preda al delirio entra in campo e fa marameo al portiere ospite. Sì, marameo, nulla di più: uno sberleffo quasi infantile. Poi torna in gradinata e sparisce. Il giorno dopo sul sito internet della squadra compare la sua fotografia e l’invito a chi lo conosca di fornirne le generalità, perché l’intenzione era bandirlo dallo stadio. A vita. E così è andata.

A Cagliari, invece, c’è ospite il Messina: ad un certo punto dalla curva del Sant’Elia entra in campo un ultrà che tira un pugno al portiere ospite Manitta e se ne torna indisturbato tra i suoi pari. Viene identificato, denunciato e via dicendo... Ma è un caso difficile, sociale, umano, eccetera ecc... E all’insegna del «tengo famiglia» finisce tutto in fanteria. Ecco spiegato in due episodi perché in Inghilterra gli stadi non sono più campi da battaglia e in Italia restano terra di nessuno. E in 12 anni le cose non sono cambiate, semmai peggiorate. Nel Belpaese.

Spesso ci si riempie la bocca col modello inglese un po’ a sproposito, ma oltre Manica i risultati ci sono indubbiamente stati. Chi dice che la piaga degli hooligans è stata debellata esagera, perché fuori dagli stadi e nei pub ci si pesta ancora che è un piacere: ma dentro gli impianti la violenza è un ricordo. E non a caso i loro sono pieni e i nostri vuoti: e chi derubrica tutto dando la colpa alla pay-tv dovrebbe forse ricordare che il fenomeno Sky e dintorni è nato in Inghilterra prima che altrove e prolifera in un altro Paese dove gli impianti sono pieni, la Germania.

Certo, stadi i moderni aiutano, e la decisione del governo Thatcher (il cosiddetto Taylor’s Act) di mettere a carico delle società le spese per la loro trasformazione e il mantenimento dell’ordine pubblico è stata fondamentale. Così come l’utilizzo di steward che non sono (non ce ne vogliano i nostri...) persone animate da buona volontà e spirito di servizio, ma autentici professionisti della sicurezza utilizzati normalmente come buttafuori nei locali: perché anche l’occhio vuole la sua parte, e un marcantonio da un quintale in su ha il suo perché in un’azione deterrente. Ma al di là delle telecamere, dei posti tutti a sedere e dell’aumento folle del costo del biglietto, la differenza nel modello inglese l’ha fatta un’altra cosa: il principio di responsabilità. Il caro vecchio «chi sbaglia, paga» per intenderci.

Ma paga nel senso materiale della parola: perché la Corona (e il common law in generale) ha un’antica e consolidata tradizione di ricorso alla pena pecuniaria. Del resto ogni cosa ha un prezzo, tanto più i danni provocati in un pomeriggio di follia . Che alle nostre latitudini sta tornando ad essere più la regola che l’eccezione. In un Paese dove i costi dell’ordine pubblico non sono a carico delle società calcistiche, dove chi sbaglia spesso non paga e ancora più spesso lo ritrovi al proprio posto di combattimento la domenica dopo, con felpa e cappuccio d’ordinanza, certo di una sostanziale impunità.

Per carità, non è tutto oro quello che luccica, e anche in terra d’Albione continuano ad avere qualche problemino, ma rispetto all’epoca d’oro degli hooligans è tutta un’altra musica. Almeno finché non varcano la Manica... In Italia, invece, i 28 mila euro dell’elicottero che sabato scorso ha svolazzato sopra Atalanta-Verona li paga Pantalone. Che, tra le altre cose, allo stadio manco ci va.

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