L’economia circolare
è un salto in avanti

L’economia, dalla Rivoluzione industriale in poi, è stata basata sul modello “lineare”: si prelevano risorse naturali dall’ambiente e si restituiscono sotto la forma di residui, che procurano danni all’ecosistema. Ora la natura ci presenta il conto. È necessario percorrere un’altra strada, quella dell’economia “circolare”, nella quale gli scarti tornano nei processi produttivi. Un mondo senza discariche è realizzabile, mentre senza rifiuti è impossibile.

Ne parliamo con Antonio Massarutto, docente di Economia Applicata all’Università di Udine e Research fellow del Centro di ricerca “Green” alla Bocconi, autore, tra l’altro, di “Un mondo senza rifiuti? Viaggio nell’economia circolare” (Il Mulino, 2019).

Gli scarti usati in altri processi

«Qualsiasi produzione genera scarti. La logica dell’economia circolare è quella che possano funzionare come alimento di altri processi. È un’opportunità per migliorare in modo significativo la capacità di ottenere benefici economici dall’uso delle risorse naturali. Il mercato non percepisce ancora, attraverso il sistema dei prezzi, quanto le risorse del pianeta stiano per diventare scarse, non solo i materiali e le fonti d’energia ma anche i destini finali di tutto quanto è smaltito. Il principale collo di bottiglia, che rende non sostenibile l’attuale modello di produzione e consumo, è proprio lo smaltimento. In Italia la possibilità di poter destinare siti a discarica è diventata sempre più difficile. Dobbiamo trovare soluzioni alternative. Le direttive europee del “Pacchetto economia circolare” del 2018 fissano gli obiettivi: entro il 2035 il riciclo urbano dei rifiuti al 65% e il ricorso alle discariche al di sotto del 10%. Traguardi impegnativi per l’Italia, dove ora il riciclo è a poco di più del 50% e in discarica va ancora il 25%. L’economia circolare è anche un invito a spostare l’attenzione dalla gestione dei rifiuti al ripensamento globale dell’economia. Recuperare più risorse dai rifiuti comporta usare le materie prime in modo più efficiente e diversificarle, ideare, distribuire, vendere i prodotti secondo un’altra concezione della creazione del valore, da una logica di prodotto a una di servizio. La scommessa è questa: la strada per uscire dalla crisi ambientale non è una fuga all’indietro ma un grande salto in avanti, con materiali e tecnologie nuovi».

Azioni, non ideologie

«Il decennio finale del Novecento e i primi anni del nuovo secolo sono stati dominati dall’espressione “Sviluppo sostenibile”. Ha quasi lo stesso significato, ma è più ambiguo», spiega Massarutto. «“Economia circolare” ha una maggiore forza e chiarezza e focalizza verso le azioni da compiere. È come la stella cometa per i Re Magi, una bussola che indica una direzione, non è Betlemme, il luogo da raggiungere. Guai a noi se pensassimo che l’economia circolare significhi diventare talebani del pauperismo, tutti vegani per salvare il pianeta. Sono versioni ideologiche, estremistiche che, figlie della cattiva fama del capitalismo, riappaiono periodicamente in un certo tipo di discorso ecologista. L’economia circolare è un invito alla tregua. Prescindendo da quanto si pensi sui destini del pianeta e le grandi questioni ambientali, c’è una strada tracciata, che impegna in modo decisivo su un’agenda da condividere. Nessuno può ritenere sbagliata la linea della Commissione europea».

«L’economia circolare è basata su industrie, impianti, tecnologie, non è il Paese dei balocchi», evidenzia Massarutto. «Dev’essere interiorizzata da tutti gli anelli della catena del valore. Chi produce il pomodoro pelato, per esempio, deve porsi il problema di quale materiale scegliere per imballarlo, chi lo mette in vendita al supermercato di come organizzare la catena della logistica affinché si minimizzino gli scarti, il consumatore dev’essere pronto a pagare un prezzo premiante per i prodotti più vicini alla logica circolare. Tutto questo può essere lasciato solo in parte al mutamento spontaneo dei gusti, dev’essere guidato dalla politica industriale. All’inizio il sacchetto di plastica biodegradabile ci ha fatto mugugnare, perché sembrava che si rompesse guardandolo. In poco tempo ci si è abituati. Ma è servito un intervento normativo». Il professore è critico sulle ultime scelte del governo in materia, in particolare sulla normativa per l’”end of waste”, la cessazione della qualifica di rifiuto riferita al processo di recupero: «Una gimkana burocratica, l’esatto contrario di quanto occorra per favorire l’economia circolare».

Servono termovalorizzatori

«Uno degli errori più grandi – conclude Massarutto – è pensare che nell’economia circolare non servano più gli inceneritori. Raggiunti gli obiettivi europei, l’Italia ha bisogno di almeno cinque o sei termovalorizzatori per il restante 25% di rifiuti. Le buone pratiche nel Nord Europa ci insegnano che questi impianti producono energia tagliando le emissioni. A Stoccolma c’è un quartiere “carbon free”, dove l’unica fonte di energia è il termovalorizzatore. La guerra a questi impianti è puerile».

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