L'autobiografia di Tino Sana:
«L'orfano che sapeva sognare»

Un'infanzia non facile e un riscatto con il lavoro diventando un imprenditore di successo. Tino Sana da Almenno San Bartolomeo, 75 anni martedì, si racconta in un'autobiografia pubblicata da Mursia «L'orfano che sapeva sognare».

Un'infanzia non facile e un riscatto con il lavoro diventando un imprenditore di successo. Tino Sana da Almenno San Bartolomeo, Costantino solo per l'anagrafe, 75 anni martedì, si racconta in un'autobiografia pubblicata da Mursia «L'orfano che sapeva sognare», con testi curati da Paolo Aresi, giornalista de «L'Eco di Bergamo».

Non aveva ancora cinque anni, quando perde il padre Bernardo, operaio della Dalmine, per un incidente sul lavoro in Germania dove era stato mandato per sei mesi. E a otto anni, mentre la madre va a lavorare in Svizzera, entra al Patronato San Vincenzo di don Bepo Vavassori.

«Il Patronato si rivelò per molti di noi una scuola di vita, un luogo dove ci rendemmo conto dei valori che sorreggono l'esistenza perché li vedevamo praticati», ricorda Tino. A tutti veniva insegnato un mestiere. Per lui fu quella del falegname. A giugno 1956 a malincuore decide di lasciare il Patronato e Don Bepo, guida spirituale che lo continuerà ad ispirare, anche dopo la sua scomparsa, con quei sogni che danno il titolo al libro.

«Penso che fosse realmente un santo», commenta. Tino, dopo non molto è assunto alla Isa-Industria Salotti e Arredi di Ponte San Pietro, con 400 dipendenti. Lavorando nel reparto che produceva per gli americani, che col calibro ammettevano solo margini in frazione di millimetro, fa suo per sempre il convincimento dell'importanza di qualità e precisione e di come una dipenda dall'altra.

Tino è apprezzato: diventa in breve operaio specializzato e poi gli propongono di diventare caporeparto. Ma ha altri progetti, in quegli anni buoni, di grande lavoro per tutti. Si costruisce la sua casetta a due piani, sotto laboratorio, sopra abitazione, e a fine 1959 apre la sua ditta, la Sana Costantino.

«Era l'Italia del boom economico ed era come se tutti guardassimo verso il futuro, avevamo un gran senso dell'avvenire, l'idea di migliorare le nostre esistenze». A volte però la fiducia è mal riposta. Tino lavora per una ditta di arredamenti, la Sam, con ordini sempre maggiori, fino ad essere ammesso come socio. Ma dalla buona intesa iniziale si passa al sospetto, forse all'invidia, e critiche pretestuose fanno uscire dalla società Tino.

Che deve ripartire da zero, da serramenti e riparazioni, con macchine di seconda mano comprate a rate. La Tino Sana nasce nel 1965 e dalla Sam lo deridono come l'«artigianello». Ma Tino è tenace e cresce. L'amico di una vita, l'architetto Cesare Rota Nodari, gli costruisce un capannone di 500 metri quadri, il primo di una serie. «A me non facevano timore le sfide, anzi mi divertivano, mi appassionavo. Avevo allo stesso tempo ambizione e umilità e guardavo lontano».

Lo sguardo arriva fino in Libia: arreda due ville di ministri, poi l'Hotel Beach di Tripoli. Declina l'offerta per la casa dello stesso colonnello Gheddafi perché avrebbe dovuto restare sei mesi di fila in Libia, ma accetta l'incarico per l'ampliamento dell'Università di Tripoli: 50 mila metri quadrati di pannelli in legno, 2.200 porte, e 3.200 armadi.

Per due anni e mezzo, fino alla fine del 1976, Tino fa la spola sul Mediterraneo, ogni mese almeno una settimana. «Non avevo ambizione per l'ambizione: io volevo realizzare una ditta che lavorasse bene, che affrontasse lavori nuovi, interessanti. Per farlo una certa crescita anche di dimensioni era necessaria».

Nel 1985 la Sam chiude e la compra lo stesso Sana. «Non so bene perché siano falliti, ma in questo lavoro sono fondamentali la conoscenza tecnica e l'umiltà, avere i calli sulle mani. Io non ho studiato, non so parlare. La mia lingua è il bergamasco. Ma ho l'occhio e conosco il mio lavoro, so fare i conti».

È una storia di perseveranza, ma prima di tutto di passione, «la molla che ti spinge a cercare la qualità». Per questo alla vigilia di Natale del 1984, mentre pensa a come cambiare l'ingresso dell'azienda con qualcosa di significativo e non banale, Tino guarda la pialla che aveva in mano e decide di fare il Museo del Falegname.

Con l'amico Silvano Pessina e il cognato Gianni Rota, ogni giorno, finito il lavoro, setaccia la zona per raccogliere oggetti che, restaurati, finiscono nel museo, inaugurato il 20 giugno 1987 proprio alla reception. «Mi sentivo realizzato. Avevo ricostruito la storia del fare, del costruire con il legno, la mia storia». La raccolta però chiede nuovi spazi e il 21 dicembre 1996 viene inaugurato il «secondo» Museo, in locali più ampi, ma separati dall'azienda.

Tino non è convinto e la stessa sera dell'apertura decide di riportare il museo a fianco alla fabbrica, perché la memoria non può stare divisa dal lavoro. La terza versione, quella definitiva, apre il 28 ottobre 2000. Racconta con oggetti originali la storia della lavorazione del legno dal 17° al 20° secolo. C'è anche una sala dedicata alla bicicletta, dalla draisina del 1820 ai giorni nostri, passando per le maglie e le bici delle vittorie di Felice Gimondi, un amico e un grande campione che per Tino Sana è anche un esempio.

«Insegnò a una generazione a non mollare mai, a impegnarsi sempre, anche quando va male - dice - Insegnò che anche un lungo momento negativo può passare, a patto di non cedere, ma di continuare il proprio lavoro con costanza e impegno. Dare sempre il meglio di se stessi, anche nei momenti difficili, porta sempre cose buone, alla fine».

Era proprio nella sala delle biciclette quando un giorno del 1993 a Tino viene in mente di celebrarla, realizzandone una tutta in legno, salvo alcune parti in metallo per il movimento e la sicurezza. Ne realizza 220, numerate, collaudate alla Bianchi di Treviglio e brevettate, con debutto in piazza Duomo a Milano il 19 marzo 1994 al via della Milano-Sanremo. E una è ancora esposta, oltre che al Museo del Falegname, anche al Museo della Scienza e della Tecnica di Milano.

Perché il Museo del Falegname sia una realtà viva Tino vi attrezza spazi per un corso professionale di falegnameria: il primo, organizzato dall'Abf della Provincia, con Confindustria e Camera di Commercio, parte nel 2006. E sempre nell'attenzione per la formazione rientra il «manuale», fotografico e molto didascalico, basato sulle sua esperienze nell'avvio negli anni Settanta di una falegnameria in Bolivia per conto del Patronato e di una nel 2005 in una missione in Zambia: l'obiettivo è favorire altre iniziative simili.

L'attenzione per il Museo non frena lo sviluppo dell'azienda, negli anni Ottanta-Novanta impegnata soprattutto nell'alberghiero per catene come Jolly Hotel, e nomi come l'Excelsior Gallia a Milano, il Gritti Palace a Venezia, il Parco dei Principi a Roma, o all'estero l'Hotel Berlino a Berlino, il Carlton ad Amsterdam e l'InterContinental a Istanbul.

Un giorno, alla fine degli anni Ottanta., dalla Germania arriva una richiesta diversa, quella di arredare una nave per un armatore greco: prova superata e parte l'ordine per la Crown Odissey. Saputo di questo lavoro, si interessa anche la Fincantieri. Arrivano le cabine per la Statendam, la Ryndam e la Veendam della Holland America Line, poi a chiamare è la Mitsubishi, per la Cristal Harmony. Risultati positivi e così prende il largo pure il comparto navale.

Nel 1995 la Fincantieri gli propone di fare anche le parti comuni di grandi navi da crociere. «Era una nuova sfida, l'impegno era veramente grosso, ma pensai che avevamo le capacità per farcela». Nascono così ad Almenno i ristoranti per la Sun Princess e per la Carnival Destiny. Seguono nel 1997 la Rotterdam, nel 1998 la Grand Princess, e poi i ristoranti per altre tre navi da record realizzate in Finlandia per Kvaerner e Royal Carribean: la Voyager of the Seas, la Freedom of the Seas e la Oasis of the Seas. Non ci sono solo gioie.

Una malattia gli toglie il 10 gennaio 1993, a soli cinquant'anni, la moglie Maria che aveva sposato nel 1961 e dalla quale ha avuto quattro figli: Giampaolo, Aurora, Guido e Chiara. «Sono esperienze che segnano la vita, la cambiano, scavano un solco nella profondità della persona. Si va avanti, la vita deve continuare. Ma si è diversi».

Dopo due anni incontra Clara che sposa l'anno dopo, naturalmente al Patronato San Vincenzo. E viene anche il momento di passare il timone ai figli, l'anno scorso: a Guido affida amministrazione e produzione, a Giampaolo il settore commerciale. A coronamento di una vita di lavoro. « Ho considerato il lavoro una grande fortuna, qualsiasi lavoro - dice Tino -. Lavorare significa fare qualcosa che migliori la vita di tutti».

Stefano Ravaschio

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