Jeremy Hackett con Albini
Mr Classic racconta la sua storia

Lo vedi e pensi subito: lui sì che è un gentleman. Jeremy Hackett, presidente e cofondatore dell'omonimo marchio inglese, ha scritto insieme a Silvio Albini, presidente del gruppo bergamasco, la seconda puntata di «Shirt Tales and Other Stories».

Lo vedi e pensi subito: lui sì che è un gentleman. Capace di incarnare lo stile british anche solo con uno sguardo. Ma con ironia e grande savoir faire. Jeremy Hackett, presidente e cofondatore dell'omonimo marchio inglese, ha scritto insieme a Silvio Albini, presidente del gruppo bergamasco, la seconda puntata dal titolo «Shirt Tales and Other Stories» - che tradotto sta per «Racconti di camicie e altre storie» -, serie di volumi prodotti dal noto cotonificio bergamasco in collaborazione con i suoi migliori clienti. Un modo per raccontare storie, fatte di colori e fantasie, di inizi spesso faticosi, ma soprattutto di successi imprenditoriali e di stile.

L'intervista con Jeremy Hackett è stata presentata giovedì sera a Milano in occasione del 25esimo anniversario della partnership tra i due gruppi, compleanno festeggiato con un party glamour nel flagship store di via Manzoni e con tanto di camicia celebrativa dove Hackett gioca con i quadrettati e i colori azzurro, giallo e rosa. Un botta e risposta tra buoni amici, quello di «Shirt Tales», con una dote viscerale che accomuna Hackett ad Albini: l'eleganza. Ricercata solo fino a un certo punto. Piuttosto innata. «L'attenzione alla qualità, la determinazione nell'andare controcorrente, non perdere nessuna opportunità e soprattutto tener fede agli ideali originari nei momenti buoni e cattivi sono dei grandi stimoli» commenta il presidente di Albini in un ritratto del brand inglese, spontaneo e affascinante, che traspare dagli aneddoti che Jeremy Hackett con naturalezza e guizzi imprevedibili, racconta. Si parte dai ricordi di Jeremy, bambino di 7 anni, cresciuto in una famiglia di Bristol dove la mamma «vendeva impermeabili Burberry» e «mio padre lavorava nel settore del tessile». E se Jeremy si descrive come uno «studente mediocre», sicuramente era un ragazzino attento al look, che gli altri ragazzi copiavano: «Eravamo obbligati ad indossare camicia bianca, cravatta rossa e pantaloni grigi di flanella, ma la mia camicia aveva un colletto a linguetta, la mia cravatta era stretta e lavorata a maglia, i miei pantaloni avevano la gamba stretta sul fondo». In fatto di stile era imbattibile, sui banchi di scuola un po' meno: «Ma il preside mi rassicurò – racconta -, dicendo che me la sarei cavata grazie al mio charme. Finora ha funzionato».

Ironico, istrionico, la fortuna arriva a Londra dove si trasferisce e dove «eventi, influenze e incontri casuali hanno fatto la differenza». Tutto parte dall'iconica Savile Row, mecca della sartoria britannica: qui Hackett viene assunto come commesso e proprio in questo periodo, per arrotondare e rimpinguare le sue finanze prosciugate dall'acquisto dei tanti abiti su misura, inizia a frequentare Portobello Road: «Scovavo vestiti di seconda mano da una generazione i cui figli avevano abbandonato i classici di qualità a favore dello stile all'ultima moda degli anni ‘60 e ‘70». Da qui il primo negozio, dove la merce era di seconda mano: «Ma non era un usato qualunque – spiega -. Tutto doveva essere di prima qualità. Abiti su misura, completi da caccia, vestiti eleganti, scarpe fatte a mano e articoli vintage in pelle venivano tutti acquistati dai mercati di strada londinesi». Il negozio non ebbe nemmeno un nome per mesi, era solamente conosciuto come «quello con quelle buffe finestre rotonde», ma aveva l'aspetto aristocraticamente elegante di un club esclusivo per gentiluomini. Piace la ricerca, l'attenzione al dettaglio: «Creavamo il concept, aggiungevamo un tocco di “britishness”. Tutto questo in un'epoca in cui molti dei negozi britannici di abbigliamento da uomo erano smarriti e non notavano quanto fosse noioso ciò che proponevano». Tanto che molti clienti non realizzavano nemmeno che Hackett non vendeva abiti nuovi: «Continuavano a chiedere: “Dov'è la taglia 44?”, senza comprendere la logica che stava dietro al negozio».

Da qui l'arrivo del marchio Hackett: «Non c'era sufficiente disponibilità di vestiti vintage e non ero disposto ad abbassare la qualità – spiega -. Iniziai a visitare fabbriche inglesi per acquistare vestiti e portare modelli vintage ai produttori per chiedere loro di produrre qualcosa di simile. Tutto ispirato ai modelli classici, molto distanti dalla moda anni ‘80 dell'epoca». Il tutto veniva etichettato come «Hackett» e questa fu la nascita del brand: «Ed è qui che entra in scena Thomas Mason: cercammo il miglior camiciaio - Jermyn Street Shirtmakers a Glouchester - e chiedemmo consigli per trovare il miglior cotone. Ci consigliarono di contattare David & John Anderson e Thomas Mason, nel Lancashire, che fornivano loro i tessuti per camicie». È proprio la Albini, nel 1991, ad aver rilevato i due marchi storici che stavano soffrendo la crisi economica dell'epoca, rilevando il loro archivio e salvando 190 anni di storia di tessuti: «Le mie spie del vecchio Thomas Mason mi dicono che le prime esclusive sviluppate con voi furono Zephir 4489 (una tipologia di tessuto, quella con cui è stata fatta ora la camicia celebrativa, ndr) e che Thomas Mason accettò di creare una nuova famiglia di prodotto apposta per voi» sorride sornione Albini. «Quadri equilibrati – ribatte Hackett -, per un look pulito e semplice». E su questo è molto chiaro: «La semplicità è la chiave dell'eleganza». Che si evolve, in un mercato sempre più customizzato: «In questa fase economica mai scendere a compromessi con la qualità, investendo sul proprio lavoro – spiega -. E poi personalizzazione e fidelizzazione del cliente, con una capacità di una visione globale del mercato». Silvio Albini annuisce: «Non si può prescindere dalle evoluzioni del sistema, a un mercato più esteso e complesso. Con una conferma della qualità, irrinunciabile». Spingendo sulla personalizzazione del prodotto e su un'attenzione mirata all'utenza: «Alle giovani generazioni, anche solo per un paio di calze: con la giusta atmosfera potrebbero tornare per un abito – commenta -. Quei ragazzi conosciuti a Portobello Road ora sono uomini della City che vestono ancora Hackett».

E se non lo avessimo capito, una cosa tiene a sottolineare: «Non sono né un designer, né un sarto: sono un retailer e un negoziante». Attento ai dettagli, alla tradizione britannica, con un ultimo consiglio di stile: «Preferire qualcosa in meno, ma scegliere solo il meglio, per articoli che durano e resistono alla prova del tempo». Da qui la scelta di proseguire con l'idea originaria dell'«affordable luxury», in modo che segmenti più ampi della società possano «acquistare lo stile di vita Hackett»: «Un grande sarto britannico ha detto una volta: “Mettici tanto e poi dimenticatene”. La mia non è alta moda né antiquariato: è semplicemente un modo di vestire caratterizzato da tocchi di ingegno e mite eccentricità». L'«Essential British kit», a dirla alla Hackett. E poi nessuno dica che non è il perfetto «Mr Classic».

Fabiana Tinaglia

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