Balzer chiude
Finisce un’epoca

Si dice Balzer, ma s’intende Bergamo. Bar e pasticceria sono termini un po’ troppo frettolosi per riassumere una vicenda che parla alla città e che parla della città. L’annunciata chiusura per fine mese narra la fine di un ciclo storico di relazioni umane ed è lo specchio di giorni difficili. Il Balzer sta in cima ai simboli laici di Bergamo. La sua forza emotiva è (era) più nell’essere che nel fare quando questo angolo del Sentierone, compreso fra piazza Dante e piazza Vittorio Veneto, dava il tono al cuore pulsante della città: il centro di gravità permanente, la vetrina degli uomini qualunque.

Altri tempi, altra musica. Lo stop a questa narrazione di costume viene da lontano e oggi ci si mette il sigillo, ma non riguarda solo il caro affitti o la felice rigenerazione di quartieri divenuti competitivi, ad un tempo terra di peones, come il modello vincente di piazza Pontida. La chiusura della pasticceria ha molto a che fare con l’estinzione dell’uomo Balzer, una genìa umana a ruota libera non più replicabile: non è colpa della globalizzazione o dei processi di desertificazione del centro, semplicemente quei volti di eterni ragazzi, di attempati giovanilisti ci hanno lasciato. Sono tante croci: è mancato l’impasto umano. C’è stato un tempo in cui l’aperitivo al Balzer era un rito, quasi un fitness sociologico, un modo legittimo per pavoneggiarsi, quando ancora il modo di vestire era un fatto di distinzione: entrare in quei locali era come portare a casa un ricordo, trasmettere sensazioni, ricevere la gradita consapevolezza di essere qualcuno.

Con un po’ d’impegno lo si potrebbe definire un luogo di aggregazione, ma a ben vedere era il palcoscenico del tipo umano di provincia con una fauna stanziale senza uguali e che non ha lasciato eredi: professionisti della chiacchiera, magici affabulatori, una simpatica combriccola di anarco-individualisti.

Senza saperlo e senza volerlo, nell’arco di tempo che va dagli anni ’70 agli ’80, quel cerchio magico che assemblava tutto e il contrario di tutto, da nobili sul viale del tramonto a giovanotti in carriera, e che non era fatto per il tè pomeridiano, ha messo in scena un racconto che sta a metà strada fra il cinepanettone e il talk show. Un Comencini e i Vanzina non avrebbero potuto fare di meglio e forse l’approccio più prossimo sarebbe stata una tappa della zingarata di «Amici miei». Così, a memoria, c’erano personaggi fissi come il Sangiù (e non s’è mai capito perché il nome Sandro dovesse essere storpiato in quel modo), con le sue giacche malmesse e la barba incolta, e il Ciccio (al secolo Paolo Impellizzeri, giornalista, che abitava sopra il Balzer).

E poi c’erano i camerieri, che già allora si chiamavano barman segnalando lo scarto di un’aristocrazia da vecchia signora: Sandro (Sandro Castelletti), il saggio della compagnia, che ancora oggi si vede in giro in via XX Settembre, e il Pasta, un marcantonio che sembrava il nipotino del Kaiser, e che invece con quel suo fare da impeccabile maggiordomo inglese era – come dice il nome stesso – una Pasta d’uomo. Non erano semplici camerieri, ma complici, confidenti, consiglieri, messaggeri di pace, più amici degli amici.

Quello scorrere del tempo in una sorta di balconata sulla passeggiata del Sentierone, fra interminabili discussioni su Atalanta e politica, riempiva le pagine di un romanzo, di un diario quotidiano con l’aggiunta di un trattato di antropologia culturale: il perfetto provinciale. Ed era, quel mondo, integrato con la vitalità del contesto, con i ritmi di una buona vita, con le passioni della politica che, quando ancora non s’erano sciolte nei centri studi, nel perimetro del Sentierone si consumavano nel segno anche del conflitto fisico. Sui tavolini del Balzer si sono montate e smontate carriere politiche, uno snodo della cucina politica. È qui (solo come esempio) che Mirko Tremaglia, nell’era di Tangentopoli, incontrava Antonio Di Pietro per cercare di portarlo dalla sua parte.

Ecco, prendete questa umanità guascona e trasferitela nel 2014: sarebbe fuori tempo, si sentirebbe a disagio, cestinata alla pari di un fastidioso ingrombro. È il mondo di ieri che ha reso celebre il Balzer, il cui prestigio appartiene pure ai beni immateriali: non è solo una questione privata, di libero mercato, ma una faccenda umana e pubblica, che riguarda la città e i percorsi di vita collettivi. E che lascia un retrogusto amaro: l’occhio attento, dietro l’allegria corsara di quei simpatici conformisti-anticonformisti, sapeva cogliere frammenti di solitudine e tristezza. Sono i due sentimenti che accompagnano l’ultimo capitolo, la fine corsa del Balzer.

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