Benzina alle stelle
tra Iran e imposte

L’Italia è un Paese strano. E lungo. In diversi punti dello stivale ci sono automobilisti che si sono trovati nelle ultime ore a sborsare per un litro di benzina verde due euro e spicci. Altri, più fortunati, la pagano ancora poco più di 1,5 euro. Fenomeno complesso, sul quale incidono diversi fattori. La prima cosa che abbiamo pensato tutti appena il prezzo ha preso ad impennarsi è stato: si avvicinano le vacanze. L’aumento spesso infatti è legato a fattori stagionali: con le vacanze aumenta la domanda e, secondo una elementare legge di mercato, aumentano i prezzi.

Ma questa volta a farli impennare è stato quando il presidente americano Donald Trump ha disdettato l’accordo internazionale sul nucleare con l’Iran, dando il via ad una profonda crisi globale che coinvolge alcuni fra i maggiori produttori mondiali di petrolio, Iran compreso. È questo il fattore principale che ha portato il prezzo del barile a sfondare gli 80 dollari. Il primo fattore è dunque internazionale.

Ma un viaggiatore si rende facilmente conto che il costo della benzina in Italia è ai vertici europei: siamo i più esosi in tutta l’area meridionale europea e siamo in competizione sui livelli massimi con i Paesi scandinavi. La crisi iraniana è quindi il fattore scatenante, ma prima di arrivare al prezzo alla pompa questo fattore viene diluito da numerosi altri elementi, più casarecci.

Il costo industriale di materia prima, raffinazione e distribuzione incide in Italia per circa il 35% sul prezzo finale. Il rimanente 65% del prezzo è fatto da imposte. Il peso maggiore è composto dalle famose accise: una serie di fattori storici che si sono accumulati nei decenni e che oggi fanno sorridere, se non fosse che pesano sulle nostre tasche. Pensate che a formare il prezzo concorrono voci quali «il finanziamento della guerra d’Etiopia del 1935-36, il finanziamento della crisi di Suez del 1956, contribuiti per la ricostruzione dopo il disastro del Vajont (1963), per giungere a tasse molto più vicine a noi come il decreto Salva Italia del governo Monti nel 2011 e i contributi per il terremoto nell’Emilia del 2012. Ovvio che oggi non c’è più nessuna guerra d’Etiopia da finanziare, ma – assieme alla componente percentuale dell’Iva, che incide per il 22% e aumenta con l’aumentare del prezzo base – queste imposte finiscono per costituire una sorta di slot machine alla quale governi di ogni colore e periodo hanno attinto, vedendo l’aumento del prezzo della benzina come una manna per i conti pubblici. Ma non è questo il solo fattore che ha reso sempre difficile l’intervento pubblico per calmierare il prezzo della benzina. Il principale produttore e distributore che opera sul mercato delle benzine in Italia si chiama Eni. Si tratta di una delle aziende a controllo pubblico più importanti e redditizie. Un vero fiore all’occhiello dell’industria italiana. L’azienda distribuisce ogni anno al suo principale azionista un dividendo composto da un assegno miliardario. Più la benzina costa più l’Eni incassa, mette in sicurezza i suoi conti ed il suo fiorente bilancio ingrossa il dividendo che il Tesoro incasserà.

Sperare che il governo intervenga per calmierare il prezzo è vano. A dire il vero negli ultimi anni qualcosa è stato fatto, a partire dalle lenzuolate di Bersani: si è liberalizzato il prezzo al dettaglio favorendo la presenza sul mercato dei cosiddetti distributori Bianchi, quelli fuori dal circuito della grande distribuzione; si è poi obbligato i benzinai ad esporre i prezzi praticati… piccoli interventi.

Questa volta però il muro dei due euro costituisce una soglia psicologica (come successe già nel 2012) che potrebbe incidere negativamente sui consumi e frenare la ripresa. Un’altra grana sul tavolo del neonato governo Conte.

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