Che cosa ci insegna
l’omicidio di Giulio

Sono bellissime e non solo commoventi le parole che i genitori del nostro giovane connazionale barbaramente ucciso in Egitto, Giulio Regeni, hanno pronunciato in questi giorni, al termine del mestissimo viaggio di ritorno verso l’Italia in compagnia della bara del loro figliolo. «Quello che è stato nostro figlio – hanno detto – quello che ha rappresentato, quello che ci ha insegnato con le sue azioni, le sue scelte, i suoi studi, il suo impegno, saranno il faro che illuminerà il nostro futuro».

Non solo il vostro di futuro, cari Claudio e Paola, mi viene subito da aggiungere. Un Paese che ha dei giovani come Giulio è un Paese che può nutrire ancora qualche speranza. Quella speranza che sorge dal riconoscimento che la generazione più anziana fa dei meriti della più giovane. Un sentimento che non è spiegabile solo con l’amore di due genitori verso un figlio così valente. No, in quel riconoscimento c’è anche una straordinaria apertura di credito al futuro, la consapevolezza che nella generazione dei nostri giovani giramondo cosmopoliti c’è qualcosa di straordinario e di inedito, una risorsa preziosissima anche per noi, per aprire le nostre menti, per spiazzare i nostri pregiudizi, per rilanciare i nostri ideali addormentati. Del resto, mi pare che Giulio ricambiasse ampiamente la fiducia intergenerazionale, se è vero che adorava Pasolini e studiava Gramsci, eroi di un’altra epoca e di un’altra generazione. È in questo modo, all’insegna della reciprocità del riconoscimento, che in un’epoca democratica, si costruiscono la tenuta sociale, l’integrazione, la coesione civile, il rispetto e la solidarietà tra le generazioni. È in questo modo, rispettandosi e apprezzandosi vicendevolmente, che le generazioni stipulano tra loro un patto fruttuoso e che la società progredisce significativamente senza dover dimenticare, senza dover necessariamente rimuovere il passato.

C’è un altro insegnamento grande che viene dalla morte tragica di Giulio se sono vere, come in effetti sembrano, le ipotesi che gli inquirenti italiani hanno fatto sulla natura politica dell’omicidio. Anch’esso riguarda il nostro futuro. In particolare riguarda quello della conoscenza e della scienza. Giulio era un giovane scienziato sociale, che aveva scelto di rinunciare alla ricerca fatta a tavolino a favore della ricerca sul campo. E che campo! Uno talmente pericoloso che gli è costato la vita. Perché voleva conoscere la verità Giulio. E voleva non solo raccontarla ai lettori del giornale con il quale da poco collaborava, ma anche interpretarla, capirla, spiegarla con gli strumenti delle scienze sociali. Rivelando al tempo stesso a tutti quel che un regime autoritario e violento voleva tenere nascosto, riuscendo a tenere insieme aspirazione al rigore scientifico e impegno civile.

Molto spesso sentiamo dire che questo non è possibile, che i bravi scienziati sociali sono solo quelli che analizzano, in modo distaccato e sprofondati nelle loro comodissime poltrone, masse di dati freddi e anonimi. O casomai quelli che pontificano su mondi liquidi e varie altre astrattezze innocue e fantasiose.

Io penso invece che i migliori e i più utili siano quelli come Giulio che illuminano, addirittura rischiando la pelle, porzioni di mondo che qualcuno vuole mantenere invisibili, quelli che danno fastidio ai poteri costituiti al punto che si decide di ammazzarli, quelli scomodi e impiccioni, veri insostituibili investigatori della società e delle sue numerose malattie. Pericoli numero uno per i potenti di ogni colore e di ogni nazionalità, amici insostituibili della libertà e della democrazia. Non ti ho conosciuto, ma ti ammiro Giulio. Sul come e perché sei morto vogliamo conoscere la verità. Ne abbiamo diritto. Fate presto.

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