Numeri e complotto
I conti del governo

Non è certo un problema personale, quello apertosi tra il presidente Inps, Tito Boeri, e l’intero vertice di governo. Persino il ministro Tria sembra averlo scaricato, buttando dalla torre lui anziché il Ragioniere dello Stato, il Signor No che blocca le leggi senza copertura, di cui avrà presto gran bisogno. La verità è che il vero conflitto è quello tra i numeri e i progetti. Con l’aritmetica, il presidente Inps ha maltrattato l’intero «contratto» di governo: secondo lui non è sostenibile qualsiasi riforma della Fornero, anche la «quota cento» costa troppo, fino a 14 miliardi, la flat tax 50, i 2 per i centri dell’impiego sono buttati via.

Quanto al decreto Di Maio, la sua «dignità» è sedicente: vuol combattere la precarietà e, secondo le imprese, crea disoccupazione e lavoro nero. La relazione firmata a sua insaputa dal ministro calcola 8.000 posti di lavoro in meno (o, se va bene, chi resta a casa è sostituito da altri 8.000).

Lo smantellamento tecnico di un intero programma di governo non è musica per i teorici del cambiamento e c’è un sottosegretario all’Economia che ha già minacciato l’Istat se non fa «sinergia» con il governo. Ci rifiutiamo però di credere che il Paese sia ricattabile da serpenti» da schiacciare come complottisti. L’autonomia dell’Inps è fondamentale, così come quella dell’Istat, perché i numeri sono numeri, altrimenti li si falsifica come in Grecia e vengono le catastrofi.

Il torto di Boeri è di non tacere sugli argomenti scomodi e anzi di usare il megafono, mentre i suoi predecessori erano famosi al massimo come gestori di cedolini e collezionisti di incarichi ben remunerati. Ma forse il torto peggiore del professore prestato dalla Bocconi è quello di essere entrato a piedi giunti sul tema dei migranti. Si è preso da Salvini del «marziano» perché ha fatto notare che per pagare le pensioni degli italiani servono anche i contributi degli ex migranti. In un Paese in cui la percezione dell’«invasione» é tra i 16 e i 20 punti superiore al reale, Boeri ha fatto il guastafeste di un’agenda che la mette al primo posto (non i dazi, non il debito) proprio quando gli sbarchi sono scesi dell’80%.

Ma i numeri, almeno quelli, non sono marziani, sono molto terra a terra. Ne bastano 3 per fotografare la situazione. Il primo: 270 miliardi è il costo dei 23 milioni di pensioni percepite da 16 milioni di italiani. Il secondo:128 milioni (milioni, non miliardi) è il costo dei 130 mila stranieri in quiescenza. Il terzo: 11 miliardi, è il versamento di 2,4 milioni di stranieri. Anche tenendo conto dei costi italo europei dell’accoglienza (5 miliardi), sono 11 miliardi che entrano nelle casse dell’Inps.

Su dati 2015, inoltre, il Pil sarebbe stato inferiore di 124 miliardi se non ci fosse stato l’apporto degli immigrati. Che quindi non rubano il lavoro, tanto più che quello di bassa qualità è affidato per il 36% a stranieri e solo per l’8% a italiani.

Causa ovviamente la giovane età media dei lavoratori (33 contro 45 degli italiani) gli immigrati, pagando con il nuovo metodo contributivo, limitano il disavanzo di molte gestioni pensionistiche di categorie che magari si offendono se parli di privilegi.

I militari godono di una pensione superiore al versato tra il 40 e il 60%, gli alti dipendenti del ministero dell’Interno quasi al 40%, i diplomatici al 29%, i professori universitari al 10/20% e i magistrati al 12%. Tra i privati, il personale di volo é a più del 30%, quanto i commercianti, e gli sportivi sono addirittura al 60%. Calcoli medi che nascondono alcuni casi di pensioni davvero d’oro, pochissime che fanno notizia, non certo quelle sopra i 4.000 euro, quasi tutte coperte da contributi.

A parte le pensioni sociali (per definizione senza contributi o quasi), solo il 4% del totale dei pensionati prende sulla base di quanto ha versato (e alcuni di loro sono paradossalmente a rischio tetto). Il 13% è regolato da un sistema misto e l’82% incassa in proporzione con gli ultimi stipendi. É per questo che in Italia la media delle pensioni é ancora circa l’85% di quanto si guadagnava al lavoro, mentre in Europa é il 60%.

Numeri, che noia. Meglio cacciar via il Grillo (quello parlante un po’ troppo di Collodi), che osa ricordarli.

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