Con Sofia tramonta
la Bergamo provinciale

Il suo ghigno obliquo è come la zeta di Zorro e, dopo l’Olimpiade, lascia il segno anche sulla Coppa del Mondo di discesa libera. Bergamo mai così alta nel circo bianco, e questo grazie a una ragazza che di orobico sembra avere poco. Sofia Goggia è, infatti, lontana anni luce dall’oleografia pedemontana del bergamasco. Uno stereotipo che ci vuole faticatori silenziosi, chiusi in noi stessi, gente sempre un po’ triste, da secoli poco avvezza al riso, tanto che persino Manzoni il bravo bergamasco dei Promessi Sposi lo aveva battezzato Grignapoco.

Esistenze a capo chino, percorse dall’afasia dei timidi e da un’oratoria da brindisi familiari che le gutturazioni pleistoceniche rendono persino grottesca. Come se il tempo per noi si fosse fermato all’Albero degli Zoccoli. Eravamo - e per alcuni continuiamo ad esserlo - i magütt sull’impalcatura, i contadini rotolati giù dalle valli, tipi più avvezzi all’attrezzo che al libro. Nello sport ci identificavano al massimo con i ciclisti che macinano chilometri e sudore e poi, quando gli capita di vincere, sul palco dichiarano «Sono arrivato uno». La figura di Sofia rende, invece, giustizia al passare del tempo, all’evoluzione della «specie» bergamasca, con la sua spigliatezza d’eloquio, il suo inglese fluente, dal timbro nasale, tipicamente yankee. E con quel suo birignao che odora di alterigia metropolitana e che suscita diffidenze tra chi è rimasto inchiodato ai luoghi comuni. Sofia è una cittadina del mondo, che ha recepito e metabolizzato le contaminazioni, una che pare sputata fuori direttamente dalla generazione Erasmus, così simile alle migliaia di studenti e lavoratori bergamaschi sparsi per il pianeta.

Di tipicamente orobico ha invece la tenacia, quella che le ha consentito di riemergere da una serie di infortuni, due dei quali rischiavano di comprometterne la carriera. Era tentata di arrendersi, poi è subentrato lo spirito di rivalsa, passato anche da un esilio volontario dalla famiglia, perché - diceva - non era bello vedere negli sguardi dei genitori la sofferenza. Anche qui, capace di demolire il luogo comune dei ventenni italiani bamboccioni e mammoni, attaccati al cordone ombelicale e al conto in banca di papà. E poi, quei siparietti sul podio, lei molto caciarona, mattacchiona, altro che musona bergamasca, con quella teatralità esibita che è forse la reazione puerile di chi vuol mascherare le emozioni. Una Tomba in gonnella, l’ha definita qualcuno, per la spavalderia, l’allegria con cui affronta le gare,riservando la serietà all’applicazione della vigilia. La bambina che è cresciuta sulle nevi di Foppolo e che già a scuola sognava l’oro olimpico ci insegna anche in materia di rivalità. Lei, amica della sua «nemica» Lindsey Vonn, a cui anche da sconfitta ha riservato il suo sorriso sghembo.

Ecco perché il significato delle sue vittorie non è solo sportivo. Sofia con la sua spigliatezza ci dice che il mondo là fuori non è un territorio ostile, ma ricco di possibilità. Che, bene o male, il futuro va cercato anche oltre confine. Lo avevano fatto i nostri nonni, boscaioli in Francia, muratori in Svizzera, sono tornati a farlo i nostri figli, ingegneri negli Stati Uniti, baristi a Londra, cooperanti in Africa. E l’inglese parlato a menadito da Sofia invita a superare gli stereotipi: molti giovani bergamaschi sono ormai più simili a lei che alle connotazioni quasi macchiettistiche con cui veniamo dipinti. Ora che anche l’Atalanta ha perso l’etichetta di provinciale e se la gioca a viso aperto con le squadre più blasonate, nella testa degli altri meritiamo di perdere il gozzo.

© RIPRODUZIONE RISERVATA