Crisi Brexit, gli inglesi e
l’esigenza di sovranità

La scelta del ministro degli Esteri britannico di dimettersi e dare corso a una crisi di governo a Londra è lo specchio di quanto complicati siano diventati i rapporti politici in Europa. La Brexit di fatto ha innescato un movimento di opinione che va oltre la Manica e investe il continente. A Bruxelles sono giustamente preoccupati perché eventuali elezioni anticipate in Gran Bretagna, di fatto, fanno andare a picco le trattative, il cui termine
è fissato per il 2019.

Il primo ministro Theresa May ha optato per una soluzione morbida che permetta alla Gran Bretagna di uscire formalmente dall’Unione europea salvo poi attraverso accordi economici dare continuità al passato. Un compromesso ragionevole che tiene in conto l’interesse dei soggetti economici ma ha il difetto di non interpretare l’umore profondo della nazione. La stampa popolare come il Daily Telegraph già parla di tradimento. È probabile che nel Paese e in Parlamento non vi sia una maggioranza favorevole a un’uscita radicale dal sistema di relazioni economiche con l’Unione ma l’umore che prevale nel Paese è un misto di paura e di orgoglio nazionalistico. Una miscela esplosiva che induce alla ricerca dell’uomo forte che rassicuri e dia certezze. Boris Johnson è l’uomo alla bisogna. Ha scelto di appoggiare la Brexit ed è lui il vero vincitore politico del referendum del 23 giugno 2016. Adesso vede uno spiraglio nelle titubanze di Theresa May che a lungo ha oscillato nella speranza di trovare un’intesa tra i fautori di un hard Brexit e i sostenitori di una linea conciliante con Bruxelles. Troppo usurante è stata l’attesa di una soluzione condivisa. I campi avversi si sono irrigiditi e la pubblica opinione sempre più appare spaesata. Si conferma la crisi della classe dirigente britannica incapace di far comprendere le ragioni dell’appartenenza all’Unione europea.

Non bastano i soli interessi economici per dare senso di appartenenza a una nazione. Sono troppi i cambiamenti avvenuti in questi anni per non temere del proprio futuro. Si dà per scontato che il progresso avanzi e che gli uomini lo debbano seguire e accettare come destino. Il problema è che la rivoluzione informatica e tecnologica di questi anni ha viaggiato molto più veloce degli umani. C’è bisogno di tempo per assimilare nuovi comportamenti e soprattutto per adeguare gli stili di vita. Il disagio si è accresciuto quando gli spostamenti si sono semplificati e all’improvviso il nuovo ha assunto il volto dell’estraneo che approda alle sponde di un benessere che non è più proprio ed è percepito come in pericolo. La Gran Bretagna come isola ha fatto da battistrada e ha indicato la via. La reazione politica va al di là della ragione economica. La cosiddetta globalizzazione ha modificato gli equilibri e coloro che prima erano stabili nella certezza di essere comunque vincitori, adesso si ritrovano dalla parte dei perdenti. Se cambiano le condizioni non vale più il detto «pacta sunt servanda». Theresa May e i politici tradizionali non capiscono che gli elettori vogliono il nuovo perché il vecchio non garantisce più. E questo spiega perché gente come Johnson vede avvicinarsi la sua ora così come in Italia hanno il sopravvento i Salvini, in Austria i Kurz e in Ungheria gli Orban. Tutti politici che hanno in comune il desiderio di non rispettare i patti che sino a ieri erano vincolanti nei consessi internazionali. Trump è l’esempio eclatante. L’affermazione della propria identità e quindi la tutela della propria sovranità è ciò che cerca l’elettore. Non è detto che tutto questo travaglio sfoci in conflitto tra le nazioni. L’uomo dell’Occidente sta ora solo cercando se stesso.

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