Deleghe in bianco
e spirito del tempo

Il parto è stato travagliato. Il cammino intrapreso si annuncia proibitivo. Il peso di promesse che si è caricato sulle spalle è troppo pesante perché possa minimamente immaginare di portarlo alla meta. Ce n’è abbastanza, insomma, perché Conte pensi di essersi imbarcato in un’impresa più grande di lui e, di converso, perché le opposizioni si illudano di agguantare presto la rivincita. Al loro posto non ne saremmo così sicuri. Tanto per cominciare, l’esecutivo giallo-verde si sta godendo la luna di miele. Ma, anche dopo che il momento magico dei festeggiamenti si sarà esaurito e il governo sarà chiamato a compiere le prime scelte impegnative e quindi a suscitare i primi scontenti, non per questo Pd e Fi possono illudersi di sfrattarlo in fretta da Palazzo Chigi.

Se prima o poi il professore prestato alla politica rovinerà davanti ad un ostacolo insormontabile, non sarà per insipienza sua o per incompatibilità di carattere dei contraenti del famoso «contratto del governo del cambiamento». Le insidie maggiori gli vengono dall’esterno, dal cappio che lega il nostro debito pubblico agli acquirenti di Bot e Btp, pronti a strangolarci sol che osiamo inoltrarci a cuor leggero in spese extra deficit. Cinquestelle e leghisti irridono in pubblico alla speculazione finanziaria ma sono pronti ad innestare la marcia indietro non appena vedono che rischiano di bruciarsi le penne, come s’è visto alla prima voce circolata di un’uscita dell’Italia dall’euro.

Tra il pericolo di default e l’annacquamento delle esorbitanti promesse elettorali c’è da aspettarsi - lo si vede già - che optino per la seconda soluzione. È la meno dolorosa, anzi pare addirittura per loro indolore. Si tocca qui con mano la peculiarità propria delle forze populiste. Il loro elettorato sembra rilasciare una delega totalmente in bianco. Possono (i leghisti) tradire l’alleanza su cui prima del voto giuravano eterna fedeltà tanto da invocare la firma dei partner davanti al notaio. Possono (i Pentastellati) trattare indifferentemente con la destra o con la sinistra. Non si leva una voce dissidente. Non si accusano defezioni.

Perché ai populisti è concesso quello che a nessun altro partito è stato mai permesso: fare e disfare a loro piacimento schieramenti, promettere una cosa (flat tax) e il suo contrario (reddito di cittadinanza), porre ultimatum (su Savona) e poi subire il diktat (di Mattarella), gridare al furto di democrazia per presidenti del Consiglio non eletti e poi insediarne uno non eletto?

Semplice, hanno un punto di forza decisivo: interpretano «lo spirito del tempo». Finiti i tempi della crescita, è subentrata l’epoca dell’incertezza: sul posto di lavoro come sull’età della pensione, sul destino dei figli come sulla sicurezza del vivere quotidiano. C’è stato un tempo in cui gli italiani erano poveri ma con un futuro e c’è un presente in cui essi godono magari di un maggior benessere ma sono senza futuro. Ben l’87% pensa che sia difficile ormai salire sull’ascensore sociale.

La società della fiducia ha lasciato così il posto alla società del rancore. E il rancore non ha un programma politico. Vede nemici dappertutto e si sente già contento se riesce a rottamare la famigerata Casta, colpevole di tutte le sue sofferenze e insediare al suo posto i profeti del «cambiamento» tanto invocato e anche tanto difficile da attuare, perché il nemico è sempre all’opera.

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