Delitto di Yara
Due processi, una sentenza

I processi a Massimo Bossetti sono stati due. Uno vero, in Tribunale, senza colpi di scena. L’altro sui media, dove a ogni udienza (meglio, ad ogni puntata) sembrava che le sorti del muratore dovessero mutare all’improvviso sull’onda di nuovi, clamorosi elementi: asseriti errori di laboratorio che l’accusa avrebbe in precedenza abilmente nascosto per incastrare l’imputato, presunti Dna sintetici, fantomatici gemelli misteriosamente spariti dopo la nascita, che porterebbero in giro per il mondo, impuniti, lo stesso corredo genetico dell’imputato.

Tanta differenza fra quanto accade nelle aule dei tribunali e quanto si dice, invece, nelle tribune dell’infotainment fa riflettere. Certo, senza colpi di scena una notizia è destinata a morire, perché priva del suo elemento costitutivo: la novità. Allora meglio tenerla in vita, finché dura, con mezzi artificiali: ecco spuntare foto satellitari scovate dai blogger, subdoli hacker israeliani, presunti complotti internazionali fra inquirenti e pirati informatici nelle torbide acque del dark web. Ma tant’è: al netto di questioni di contorno, in 50 udienze fra primo e secondo grado, di novità a processo non ce ne sono state. Il muratore di Mapello ha varcato la soglia dei tribunali ( di Bergamo prima, di Brescia poi) con il peso di una prova del Dna sul capo e ne è uscito tal quale. Eppure, di udienza in udienza, di talk show in talk show, capitava di sentirsi chiedere: «Allora, hai sentito in tv? Ci sono novità: faranno una super perizia, si è scoperto che hanno sbagliato le analisi e che quel Dna non è il suo» .

La prova genetica, invece, in Tribunale non è stata messa mai davvero in discussione: non lo ha fatto la Corte d’assise di primo grado, né i giudici d’appello, che evidentemente hanno ritenuto sufficienti e correttamente svolte le 104 analisi compiute a partire da slip e leggings della vittima, che per 71 volte hanno confermato lo stesso risultato: Ignoto 1, alias Massimo Bossetti. L’insistente richiesta della difesa di una nuova perizia è suonata allora più come la volontà di un processo all’operato dei Ris, i quali per «difendere la loro indagine» - per citare uno dei legali di Bossetti, l’avvocato Claudio Salvagni - sarebbero stati disposti, si deduce, perfino a incastrare un innocente. Ma perché proprio Bossetti? Perché, dopo aver confezionato una prova granitica a suo carico, gli inquirenti avrebbero atteso tre anni, prima di arrestarlo?Perché perdersi in indagini anagrafiche a ritroso fino al 1700 per risalire al padre biologico del presunto assassino? Perché sottoporre inutilmente al test del Dna più di 20 mila persone? E poi un «presunto colpevole» gli inquirenti lo avevano già, arrestato due settimane dopo il delitto: Mohammed Fikri, un extracomunitario, uno che dovette difendersi dal pregiudizio, prima che dalle accuse. Eppure, accortisi del clamoroso abbaglio, gli inquirenti ammisero l’errore e lo rilasciarono, con tante scuse. Bossetti, si obietterà allora, potrebbe essere stato incastrato da analisi sbagliate.

Com’è possibile, però, che che da un errore scaturisca non un profilo inutilizzabile e inattribuibile, come ci si aspetterebbe, bensì per 71 volte l’impronta genetica di una stessa persona? Non il profilo genetico di un individuo su cui gli investigatori avevano già posato gli occhi o concentrato i sospetti, ma di un insospettabile, sconosciuto prima alle indagini (e pure a Yara). Non il Dna di un Alberto Stasi, il «fidanzato» che già in partenza è il principale indiziato e che, comunque, aveva rapporti con la vittima tali da giustificare la presenza del suo profilo genetico. Non un Raffaele Sollecito, che aveva frequentato l’abitazione di Meredith. Se il pericolo più grosso per un’inchiesta è quello di procedere a senso unico, nel caso Yara anche volendo non sarebbe stato possibile, dato che l’unico elemento a disposizione è stato, a lungo, un codice genetico senza nome.

E’ vero anzi il contrario, perché ogni spunto investigativo degli inquirenti, più volte, si è infranto su quel Dna che non combaciava con i sospetti e faceva retrocedere l’inchiesta al punto di partenza.Alla fine a chi è risultata appartenere quella traccia biologica? Non a un «architetto» di Amsterdam (evocando la metafora utilizzata dai legali della famiglia Gambirasio), ma a un certo Bossetti Massimo Giuseppe, muratore che conosceva Brembate Sopra e che le celle telefoniche collocavano in zona, il giorno del delitto. «Non mi hai mai detto cosa hai fatto quella sera», gli dice la moglie durante un colloquio in carcere, intercettato. Per l’accusa, la mancanza di un alibi è un altro elemento che pesa, nel verdetto finale. Bossetti stesso ha ribadito:«Yara? Non l’ho mai conosciuta». E allora perché quella traccia biologica sugli slip della ragazzina? Una domanda a cui, per i giudici di primo e di secondo grado, non c’è risposta alternativa a quella che a togliere la vita alla tredicenne di Brembate Sopra sia stato lui. Si andrà in Cassazione? Quasi certamente sì. Con la speranza che il vergognoso «circo mediatico» inscenato attorno a questa tragedia si ricordi non solo dell’indagato, ma anche della vittima. E dei suoi familiari: il sorriso di Yara non lo rivedranno mai più.

© RIPRODUZIONE RISERVATA