Dopo Expo, Milano
città mondiale

Le luci multicolori dell’Albero della Vita si sono spente, ma la loro scia è destinata a durare a lungo nella mente e nel cuore del Paese. Expo è stata sei mesi di educazione alla mondialità, alla percezione della concreta condizione planetaria di ciascuno di noi. Ha fatto sentire quest’area del Paese come una «città mondiale», coinvolta in una globalizzazione a km zero. Il Gruppo di ricerca inglese Globalisation and World Cities ha definito nel 1998 i parametri di una «città mondiale»: grande conurbazione, popolazione numerosa, hub internazionale, sistema di trasporti urbani ben collegati con altre città ,telecomunicazioni d’avanguardia, cosmopolitismo, ambiente culturale specifico, imprese internazionali importanti per il commercio. Insomma: una città-area che attrae forze da tutto il mondo e che influenza tutto il mondo con una concentrazione di sapere, di economia, di bellezza, di ricchezza.

Le «città mondiali alfa» sarebbero quattro - Londra, New York, Parigi, Tokyo - a 12 punti e sette, a 10 punti. Si tratta di classificazioni indicative e opinabili, si intende. Tuttavia, qui, tra le sette, si trova Milano. Non è la Milano dei Navigli, e neppure il suo contado provinciale: è la conurbazione continua che corre dal Ticino al Lago di Garda, che comprende l’intero Nord della Lombardia, l’area padano-longobarda. Bergamo vi fa parte. Si tratta di circa dieci milioni di abitanti. Il risultato principale dell’Expo è aver dimostrato che diventare «città mondiale» è possibile e necessario. Questa è la sfida che ci lascia sul tavolo. In Europa è già stata vinta da Parigi, da Lione, da Berlino, da Amburgo, da Londra... Secondo una ricerca Ocse, il 68% della popolazione europea vive nelle aree metropolitane (alfa e beta), che producono in due terzi del Pil europeo.

Questo è il presente e il futuro: grandi aree urbane, interconnesse da reti veloci di trasporti, disseminate di spazi verdi, in un continuum, in cui stanno abitazioni, università, centri di ricerca, ospedali, teatri e musei... Ben lungi dal generare una condizione umana alienata, questo assetto offre occasioni di lavoro, sviluppo, ricchezza, sapere, socialità. In questa configurazione policentrica svanisce la distinzione tra centro e periferie, tra capoluogo e città provinciali, tra pianura e montagna. Avveniristico? No, fisicamente esiste già, ma sregolato, disordinato e, spesso, invivibile.

Uno sguardo fugace da un aereo decollato da Orio aiuta più di qualsiasi descrizione verbale. La sfida post-Expo consiste nel portare la politica, le amministrazioni, le istituzioni, i trasporti, l’urbanistica, le reti di servizi, il sistema educativo, la rete universitaria e di ricerca all’altezza di questa realtà.

Le resistenze si annidano nel sistema amministrativo, negli Enti locali, nella politica, nella mentalità prevalente dei cittadini/elettori. Mentre la Grande Berlino, con oltre sei milioni di abitanti, nel 1995 diventava una Città-Stato, mentre Londra, con i suoi otto milioni e mezzo di abitanti, nel 2000 diventava la Grande Londra ed eleggeva un sindaco, qui, la politica e gli elettori inventavano le inutili province di Lodi, Lecco e Monza-Brianza. Si tratta di fare un salto mentale e culturale. L’Italia dei campanili e delle valli e la Lombardia dei 1.530 Comuni stanno asserragliate nelle identità locali. Mentre le generazioni nate nel ‘900 sono bloccate dietro le sbarre dorate della retorica identitaria, i loro figli se ne vanno lontano, fuori dall’Italia, se possono, e non tornano più. I territori inaridiscono culturalmente, la montagna si spopola e degrada, la pianura si riempie desolatamente di cemento. Allora... addio alle nostre identitarie millenarie? No! Ad esse dobbiamo la nostra accumulazione originaria. Si tratta, però, di metterle in gioco nel mondo. Le imprese, le università e le giovani generazioni hanno già incominciato. Le identità illuminano, se tengono acceso il fuoco. Sennò, il futuro potrebbe non aver bisogno di noi.

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