Migranti, e adesso
un minuto di silenzio

Un minuto di silenzio innanzitutto per chi è morto in mare o nelle piste nel deserto, per chi viene seviziato nei campi di detenzione libici, per le donne incinte e i bambini respinti al confine francese o dai fili spinati ungheresi. Un minuto di silenzio nostro, dei cosiddetti esperti o commentatori. È facile pontificare quando non si hanno responsabilità, quando si vive in un quartiere centrale di una grande città: ben più complesso per prefetti, sindaci, forze dell’ordine, dell’ordine, governanti. O per chi vive nelle periferie, vicino a centri di accoglienza affollati, vicino ai porti degli sbarchi. Per chi deve dare, ogni giorno, soluzioni e non ricette teoriche.

Un minuto di silenzio per l’Europa, che in pochi anni ha fatto innumerevoli giravolte fra la negazione del problema, la gestione emergenziale, la velleità di darsi soluzioni di lungo periodo: e si trova ancora oggi inchiodata a Dublino, agli egoismi, ai protagonismi, al sogno di «proteggere le frontiere» dimenticando che la prima frontiera europea è un mare. Un minuto di silenzio per la politica dei singoli Paesi, nessun escluso.

Una politica schiacciata tra la volontà di assecondare la crescente domanda di chiusura che sale dai cittadini e la residua volontà di restare «umani», disconoscendo una triste realtà: «chiudere» significa sempre accettare qualcosa di «vomitevole». Per la Germania come per la Francia, l’Ungheria come l’Italia: che si tratti di pagare Erdogan per tenere due milioni di siriani o i libici per decine di migliaia di africani, che si tratti di bloccarli a Calais in una discarica o in una barca alla deriva davanti alle nostre coste.

Un minuto di silenzio sull’Italia e in Italia. Un minuto di silenzio sull’Italia, da parte della Francia, dopo le accuse inaccettabili ma anche di Orban, per il sostegno non richiesto. Un minuto di silenzio in Italia, per lasciare spazio a qualche pacata riflessione dopo i toni alti di questi giorni. È difficile contestare l’efficacia tattica della scelta di chiudere i porti e il valore del segnale forte sulla necessità di maggior solidarietà mandato agli altri Paesi europei (e agli elettori nostrani) dopo anni di tenace ma pacata negoziazione in Europa. La tattica, seppur efficace, deve però lasciar rapidamente spazio ad una strategia, ad una visione di lungo periodo: come se ne esce? Con quali alleanze? Che impatto può avere la nostra nuova politica sui migranti sulle altre politiche del nuovo governo?

Siamo pronti ad affrontare un’estate dove ogni giorno saremo alla ricerca di un porto di un «Paese generoso» in contrapposizione alla «vomitevole Italia»? Siamo sicuri che in un’Europa che richiede alleanze per portare a casa qualunque risultato (dai fondi per il Sud, alla flessibilità per riformare la Fornero o le tasse, all’abolizione delle sanzioni verso la Russia) i nostri migliori compagni di viaggio siano Austria, Ungheria e Polonia «contro» Francia e Germania? È con i primi, fautori della chiusura ai migranti che arrivano da noi, che troveremo la soluzione solidale che tutti auspichiamo? Alzare la voce è a volte utile. Un minuto di silenzio, per riprendere fiato e valutare con realismo l’interesse complessivo del Paese, è sempre necessario.

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