Il carcere vendicativo
non è strada per la sicurezza

La verità è nota agli addetti ai lavori. Non invece all’opinione pubblica in generale, almeno a quella parte che si informa attraverso i grandi media e i social network, nei quali prevale spesso una narrazione dell’attualità superficiale e omologata. La verità è questa: le persone che scontano in carcere tutta la pena, tornate in libertà hanno una recidiva (la commissione di nuovi reati) vicina al 70%; se beneficiano invece di pene alternative alla detenzione in cella, la recidiva crolla al 20%; per chi lavora in carcere o all’esterno diminuisce talvolta fino al 2%.

Nel dibattito pubblico si invoca giustamente la certezza della pena ma mai la sua efficacia. Carceri sovraffollate (capienza complessiva di 50.589 posti, presenze a quota 58.163 di cui 19 mila stranieri) e carenza di personale addetto alla rieducazione dei detenuti rendono lo sconto della pena in cella non rispondente a una delle sue finalità, sancita peraltro dalla Costituzione: il recupero della persona, oltre all’aspetto retributivo della pena nei confronti della società. Oggi le carceri italiane sono discariche sociali, quando non palestre del crimine. Vi abitano più di 10.000 persone che, per titolo di reato o per affiliazione criminale, possono essere qualificate come pericolose. Le altre 48.000 appartengono a quella che Sandro Margara, grande giudice di sorveglianza e capo dell’amministrazione penitenziaria, chiamava «detenzione sociale»: persone che sono in carcere perché prive di mezzi per starne fuori. Il potenziamento dell’esecuzione penale esterna serve anche a evitare che i più bisognosi siano costretti in carcere come in un grande ospizio dei poveri.

Esecuzione penale esterna non vuol dire riduzione della pena: la condanna viene espiata ma in un altro luogo. Con un certo coraggio e senza lisciare il pelo al senso comune sul tema di buona parte della pubblica opinione, il ministro Andrea Orlando aveva messo mano alla riforma dell’ordinamento penitenziario: l’ultima risaliva al 1975. Ma l’approvazione definitiva della riforma era prevista a pochi giorni dal 4 marzo elettorale e il Consiglio dei ministri non se l’è sentita di dare il via libera a un provvedimento che poteva suonare impopolare, anche se in un appello siglato da associazioni, giuristi, avvocati (che hanno decretato uno sciopero dopo lo stop governativo) e procuratori si precisa che la novità legislativa mira al recupero e al reinserimento del colpevole e «non contiene nessun afflato buonista, nessuna “liberatoria” per pericolosi delinquenti, nessun insensato ed indulgenziale “svuotacarceri”».

Il Consiglio dei ministri avrebbe ancora tempo per varare il decreto delegato, fino al 23 marzo quando si riuniranno le nuove Camere. Ma il clima sociale è quello che è. Ne ha dato prova recentemente una trasmissione radiofonica solitamente pacata anche negli interventi degli ascoltatori: la puntata di «Radio anch’io» trattava proprio della riforma penitenziaria. La redazione è stata travolta da messaggi e interventi che invocavano un carcere punitivo, secondo un’idea vendicativa di giustizia, pensata come la sola via per garantire sicurezza ai cittadini. Eppure quei numeri citati all’inizio sulla recidiva sono inequivocabili. Un carcere che rieduca restituisce alla società persone recuperate nella loro integrità umana e rispettose delle leggi, un carcere duro e puro libera individui che tornano a compiere reati e a rendere le nostre città più insicure. È un’evidenza, per chi vuol vedere.

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